Un camper a Lugagnano, una malattia rara, la solitudine e l’importanza di una comunità presente

Pur avendo sentito parlare di malattie rare non mi ero mai soffermata su cosa vuol dire per una famiglia scoprire e vivere questa condizione. Ha destato curiosità, nei giorni scorsi la presenza a Lugagnano di un camper, piuttosto malconcio. Le scritte sul pezzo invitavano a visitare la pagina Facebook “il camper di Lucrezia” e una rapida ricerca su Google mostra vari articoli di giornali che raccontano la sua storia.

A bordo di questo camper vive per alcuni mesi dell’anno (escluso il periodo scolastico) una famiglia con una bambina affetta da una malattia rara, la SCN8A una mutazione genetica il cui primo caso scoperto in Italia è stato solo pochi anni fa e di cui ad oggi i casi conosciuti non superano la quindicina.

Cosa ci faceva, quindi, il Camper di Lucrezia proprio a Lugagnano? Effettivamente non era qui per caso. Erano in visita ad una famiglia di Lugagnano che fa parte di questo esiguo gruppo avendo scoperto che la causa delle patologie del proprio figlio è proprio questa mutazione genetica. Due famiglie all’apparenza così diverse, due modi di vivere e di concepire la vita diversi, due modi anche di affrontare la medesima malattia.

Quando si scopre di avere una malattia rara, direi anche rarissima, si cerca naturalmente di entrare in contatto con quelle poche altre persone che hanno lo stesso problema per confrontarsi sulle modalità, terapie, diagnosi, cure. Se per le malattie, seppur gravi, conosciute ci si può affidare a cure e protocolli collaudati e ci sono magari centri e associazioni specifici, per le malattie rare la “solitudine” terapeutica è la norma.

Sapere che non ci sono certezze perché non ci sono abbastanza casi di studio per confermare la bontà di un trattamento piuttosto di un altro ed andare avanti per tentativi, sulla pelle del proprio figlio sperando di vederlo stare meglio… non lo può capire chi non lo vive.

Ognuno di loro cerca e si affida a medici e specialisti diversi, cerca le terapie che gli sembrano più adatte e ognuno ha sensibilità e priorità diverse. Senza poi dimenticare che seppur presentando caratteristiche comuni, la mutazione può presentarsi in modo diverso da caso a caso e la risposta a terapie e farmaci è diversa.

Ci si trova, quindi, a fare gruppo con persone che magari non hanno nulla in comune con noi per provenienza, studi, passioni o credo, ma “solo” una sigla che identifica una malattia nella speranza di essere un po’ meno soli nella lotta quotidiana per il bene dei propri figli.

Spesso, nei riguardi dei figli, sia sani sia malati, ci si guarda indietro e ci si chiede se si sono fatte le scelte giuste, se si poteva fare di più, di meno o diversamente, nel caso di un figlio malato questi sentimenti si amplificano.

Si sa che non si può tornare indietro come in un film degli Avengers e ripetere la scena finché il risultato sia quello sperato, la vita va avanti e non c’è una seconda possibilità. E credo che questo sia il fardello più pesante (se già non lo fosse abbastanza la malattia).

La differenza penso la possa fare però la comunità di appartenenza. Rimanere ancorati alla propria realtà ed essere accolti con tutta la propria famiglia può essere quel valore aggiunto che migliora la qualità della vita. Per non aggiungere solitudine a solitudine.

Nata a Verona risiede a Lugagnano dal 1996. Sposata con Alessandro ha due figli, Matteo e Michele. Collabora nella gestione dello Studio Tecnico del marito. Amante della montagna, della vita all'aria aperta e della lettura.