“Non si può non comunicare”. Questo disse, a proposito della comunicazione, uno dei massimi esperti sull’argomento: Paul Watzlawick. Intendeva dire che anche quando non stiamo dicendo niente in realtà stiamo comunicando qualcosa.
Vale davvero, anche in quest’epoca di comunicazioni più virtuali che reali? Pochi giorni fa ero nella sala d’attesa del medico, stavo aspettando il mio turno. Il silenzio era totale. Alzo lo sguardo. Tutte le persone intorno a me hanno il telefono in mano. Sono tutti molto presi da quello che stanno facendo: “chissà che cose importanti devono fare” penso. Poi sbircio il telefono della persona seduta vicino a me… E vedo palline colorate che esplodono. Ah! Il silenzio continua.
Fino a quando qualcuno lo interrompe: “siete tutti per il dottor tal dei tali?”, “a che ora aveva l’appuntamento lei?”, “come mai è in ritardo?”, “strano, è sempre in orario!”, “ah, ma c’è il sostituto?”, “ma il dottore allora è andato in vacanza?”, “eh con tutti sti ponti”, “mio cognato è andato via per Pasqua e ha trovato sempre brutto”, “adesso sembra vada meglio” “ma hanno messo pioggia già per domani” e avanti così.
Nel giro di pochi minuti tutti hanno distolto lo sguardo dal telefono e si sono messi a parlare. Di niente, si sa, l’argomento meteo è il grande classico di chi non sa cosa dire. Ma l’impressione che ho avuto è che tutti in realtà cercassero solo un pretesto per poter dire qualcosa.
Tornando al “non si può non comunicare”: mi sembrava che quell’infilare la testa nel telefono comunicasse non tanto un “non voglio parlare” quanto un “vorrei dire qualcosa, ma non so né cosa nè come, quindi me ne sto qui e aspetto l’occasione giusta. Se arriva bene, se non arriva pazienza, in ogni caso non avrò fatto figuracce”.
Stiamo in mezzo alle altre persone tutto il giorno e tutti i giorni, ma siamo profondamente soli. Viviamo in un’epoca in cui abbiamo la possibilità di comunicare in tempo reale con persone dall’altra parte del mondo, e non riusciamo a farlo con la persona seduta accanto a noi nella sala d’attesa del medico.
Stiamo pian piano dimenticando come si comunica, come si sta con gli altri, come si socializza. Socializzare era un’abilità fondamentale quando vivevamo nelle caverne, perché l’individuo aveva bisogno del gruppo per sopravvivere: chi era buttato fuori dal gruppo era destinato a morte certa. Oggi non abbiamo più bisogno degli altri per sopravvivere, ma ricerche recenti dimostrano che chi ha una buona rete di relazioni sociali gode di una salute migliore, per esempio mediamente ha un sistema immunitario più forte.
E per quanto riguarda la salute mentale, è facile intuire che socializzare è un elemento protettivo rispetto a patologie, come la depressione, che invece ci portano a isolarci.
Il desiderio di socializzare, proprio perché viene da così lontano, è forte, è antico, è istintivo. E per questo, a volte senza rendercene conto, cerchiamo le occasioni per farlo: formali o informali, come l’adesione ad associazioni o a gruppi di qualsiasi tipo.
Un paziente poco tempo fa durante un colloquio mi ha detto “mi sono separato e quindi, come tutti, mi sono iscritto ad un corso di latino-americano”. Mi ha fatto sorridere per il luogo comune, ma ha detto una grande verità: nel momento in cui, per un qualsiasi motivo, abbiamo voglia o bisogno di socializzare ci serve un “contenitore” in cui farlo, un pretesto per poter alzare gli occhi dal nostro telefono e comunicare, e socializzare, con gli altri.
Ben vengano quindi, “gli amici de”… il tennis, la bicicletta, il tango, la montagna, i funghi, i formaggi, il vino, il teatro, la briscola, gli scacchi, i donatori di sangue, la sindrome di down, l’autismo e chi più ne ha più ne metta. Con un consiglio: cercare di aprirsi il più possibile all’esterno, perché il mondo è pieno di persone con il naso nel telefono, che sembra abbiano altro da fare, ma che in realtà stanno solo aspettando il pretesto per poter alzare lo sguardo.