Quando ancora non si pensava alle ferie esotiche, quando ancora non si ragionava di villaggio globale, né si usavano termini quali terzomondiale, terrone così via, quando nelle nostre campagne l’umanità intera veniva distinta semplicemente in paesani e forésti, a Lugagnano, comunque si adoperava una sottodivisione, per distinguere fra questi ultimi quei da le Casele.
“La prima a sposar uno dale Casele lè stà la Jole Caliari, nel 1924. Dopo ghe né stà ancora dei altri, ma no à fato più tanto efèto”. Così la lucida novantottenne Maria Vantini mi raccontava vent’anni fa le prime commistioni fra Lugagnano ed i vicini di Caselle. E nonostante il tono dolce e pacato, le sue parole sembrano conservare ancora l’eco dell’antico scandalo.
Volendo considerare concluso il periodo del campanilismo vero, quello duro, con la metà circa del Novecento, si può riconoscere certo che fu frutto di ignoranza, intesa soprattutto come chiusura a ciò che usciva dalla propria monotona ma sicura quotidianità, nonché dell’incapacità di vincere la diffidenza verso gli estranei al proprio gruppo.
In questo senso, esperienze come l’emigrazione o le due guerre mondiali, affiancando coattivamente tradizionali “nemici di campanile” in situazioni di disagio o di drammaticità, risultarono determinanti per squassare i munitissimi recinti che le nostre comunità paesane avevano eretto nel corso di più secoli.
Peraltro, la vastità del fenomeno del campanilismo – per cui non esiste paese che non abbia avuto un paese vicino identificato fra i tanti come il rivale per eccellenza – deve far pensare a qualcosa di più di una riedizione aggiornata degli scontri tribali di vetusta memoria.
Per esempio, la radicata e soprattutto generalizzata povertà “esigeva” un forte senso del gruppo, che inevitabilmente creava – oltre alla indispensabile solidarietà verso l’interno – anche rigide preclusioni verso chi del gruppo non faceva parte. Inoltre, le scarse occasioni e possibilità di movimento sul territorio – una delle principali cause del campanilismo – originavano anche un forte attaccamento al luogo natìo o comunque di residenza, così da garantire a ciascuno, anche al più povero, al più debole, una precisa anche se angusta identità in cui rifugiarsi.
Detto tutto questo, resta il fatto che Lugagnano e Caselle non si potevano proprio soffrire.
Non si ricorda un fatto, un motivo particolare per cui i due paesi si scelsero come nemici: forse la rivalità si fondava su un antico legame (attestato da varie carte geografiche) e poi rotto che, durante ancora tutto il Settecento e prima che la ferrovia separasse anche fisicamente i due paesi, faceva denominare “Caselle di Lugagnano”.
O forse successe e basta e, visto che l’amore è cieco, possiamo dire che in questo caso si trattò invece di odio a prima vista.
Innumerevoli le rampogne e gli sgarbi che i due paesi reciprocamente si rinfacciavano, soprattutto per giustificarne di nuovi: dato che Il Baco da Seta è pubblicato nel Comune di Sona, diremo che i nostri vecchi imputavano agli altri di essere “gente proprio ordinaria, gresa” e così via insultando in crescendo. Considerato che, obbiettivamente, non si possono pensare stili di vita estremamente diversi, vien da pensare che la più accentuata rusticità di quei da le Casele venisse dilatata magari a causa della rigida divisione tra classi sociali, che si rifletteva anche su piccoli proprietari e semplici lavorènti, pur assai vicini nelle condizioni economiche: a Lugagnano infatti i primi erano più diffusi che non a Caselle, dove predominava la grande proprietà.
Ma tant’è: bastava questo perché a Lugagnano, ancora in tempi recenti, si potesse sentir apostrofare con uno sprezzante “sìto come quei da le Casele” chi, magari per fretta, non si sedeva a tavola e si limitava a mangiare qualcosa restando in piedi. Stigmatizzando così l’usanza degli odiati vicini, in essere almeno fino agli scorsi anni Quaranta, di consumare il pasto seduti fuori dall’uscio ed un po’ rinfrescati dalla prospicente canaletta, con un piatto in mano ed una fetta di polenta nell’altra.
La preminenza pretesa da quei da Lugagnan (ed ovviamente mai riconosciuta da quei de le Casele) si fondava su una lunga serie di piccoli traguardi tagliati per primi, dilatati nella loro reale importanza dall’orgoglio di chi ben poco altro aveva per differenziarsi.
Innanzitutto la parrocchia, centro nevralgico della vita sociale del tempo ed ancor più in paesi che non erano sedi municipali: Lugagnano poteva vantarsi di avere un proprio parroco già dal 1797, mentre Caselle dovette masticare amaro fino agli anni Trenta dello scorso secolo. Dipendendo dalla parrocchia di Sommacampagna, i Caselanti dovevano quindi sopportare tutta una serie di disagi quali il celebrare battesimi, matrimoni e funerali nel capoluogo.
Certo, nel 1885 riuscirono a conquistarsi finalmente il “lusso” di un proprio cimitero e nel 1908 poterono strappare all’ormai inviso parroco di Sommacampagna anche il diritto di poter festeggiare i propri sposi nel proprio paese, ma è chiaro che intanto Lugagnano aveva avuto tempo per dispensare in abbondanza perfidi lazzi.
A poco valeva che quei da le Casele cercassero di controbattere con l’orgoglio per la loro provata abilità nel maneggiare badili di dimensione superiore alla norma, per i quali furono rinomati in campo edile fino all’avvento della betoniera.

E poi fino ai primi decenni del Novecento “a le Casele no se podèa crompar gnanca na ucia”, mentre invece a Lugagnano già da lungo tempo erano comparse le prime botteghe.
E ancora, Caselle non poteva esibire una propria squadra de fùbal, mentre i rivali fondavano una associazione calcistica nel 1932 e possedevano addirittura un apposito campo, opportunamente liberato dalle immancabili marògne. Ma forse, considerato che in quei tempi le partite spesso erano sentite come una sorta di riproposizione della mortale sfida fra Orazi e Curiazi, il mancato confronto evitò sanguinose conseguenze.
E la rissosa pianta del campanilismo attecchiva ben presto anche fra le innocenti anime dei fanciulli delle due parti. Così rischiavano sassate i malcapitati – senza riguardo di sesso – che, attraversando il territorio altrui, magari solo per raggiungere dei parenti, si imbattevano in qualche banda di monelli locali. Ma le sassaiole più sentite i Balilla degli anni Trenta e Quaranta se le scambiavano dopo le Sante Funzioni pomeridiane della domenica, con un appuntamento quasi canonico che trovava le due fazioni schierate e contrapposte lungo il sacro confine del canalon, il canale d’irrigazione dell’Alto Agro Veronese.
Da parte loro i maschi adulti avevano invece un momento privilegiato nelle rispettive sagre – altro totem del campanilismo – quando nel finale di serata l’eccitazione della festa e i fumi dell’alcol scatenavano l’immancabile zuffa, con i cazzotti a far da surrogato ai fuochi artificiali.
Per mettere fine ad un elenco che rischierebbe di diventare infinito, concludiamo con l’oggetto dei sarcasmi più feroci, colui che diede addirittura il proprio nome a queste interminabili rivalità: il campanile, appunto. Si dà il caso che Caselle, nel 1906, dia realizzazione alla legittima ambizione di avere una chiesa più grande, così da soddisfare le esigenze di una popolazione via via accresciutasi. Però i tempi erano veramente duri e l’erezione della torre campanaria venne rimandata a momenti migliori.
Così per oltre mezzo secolo il nuovo edificio, addossato al precedente, dovette utilizzare il vecchio campanile, che purtroppo risultò addirittura più basso della nuova imponente chiesa (foto in alto sotto il titolo). Ora, a parte gli inconvenienti pratici, per cui il suono delle campane, a causa di cotanto schermo, si udiva solo in metà del paese così che la campana più piccola dovette essere installata sul tetto della chiesa nuova, risulta con tutta evidenza che una simile particolarità espose gli sciagurati (dallo stretto punto di vista del campanilismo) abitanti di Caselle al ludibrio di tutta la provincia. Da parte sua, Lugagnano non fu così signora da snobbare una simile opportunità di beffe, figurarsi.
L’episodio che più caratterizzò questa disputa nella disputa fu la proditoria incursione notturna con cui degli audaci di Lugagnano, con reale sprezzo della propria incolumità, ardirono scaricare un carro di letame alla base del campanile, al derisorio fine di concimarlo per una rigogliosa crescita.
Bisogna dire che Caselle ribattè presto con analogo blitz, scaricando sulla pesa pubblica presso il crocevia di Lugagnano una carrettata di erba appena falciata, accompagnata da un trionfante cartello con scritto “quarto tàio”, per sottolineare la ben differente resa dei suoi campi, già benedetti dall’irrigazione artificiale, rispetto ai campi di Lugagnano, ancora riarsi dalle frequenti sùte estive.
Peraltro, l’acqua di lì a una quindicina d’anni arrivò anche a Lugagnano, mentre il campanile di Caselle continuò testardamente a rifiutarsi di crescere.
Così, nell’immediato secondo dopoguerra, il mitico Nino dotòr, al secolo Guerrino Cagliari, di professione brillante burlone e nel tempo libero valente dentista, potè ancora recarsi – stavolta in pieno giorno – a torcolàr quei da le Casele per il loro campanile. Ma il suo travestimento da facoltoso turista, da “mericàn”, che chiedeva informazioni riguardo il celebre campanile di Caselle, non gli evitò di essere ben presto riconosciuto e solo una precipitosissima fuga lo salvò da dolorose conseguenze.
Arriviamo così alla seconda metà degli anni Sessanta quando, finalmente terminata la costruzione del nuovo campanile, i conducenti del camion che trasportava le campane da collocarvi ritennero doveroso fermarsi a Lugagnano, per chiedere con falsa ingenuità informazioni sulla strada per raggiungere Caselle.
Ma erano gli ultimi bagliori dell’antico fuoco: ormai sia a Lugagnano che a Caselle, la sera, si guardava la medesima televisione.