Quattro neodottoresse in Tanzania per volontariato medico: “Qui tutto serve con la stessa priorità”

Raccontiamo l’esperienza di quattro neolaureate in medicina, che stanno trascorrendo un periodo di volontariato medico in Tanzania. Una di loro è Claudia Tomelleri, lugagnanese che si è laureata in medicina a Verona nel luglio 2022. Con lei ci sono le dottoresse Giulia Luppino e Cristina Agnini di Modena che si sono laureate in medicina due mesi fa nella loro città, e Sofia Maria Avesani di Valgatara in Valpolicella, compagna di laurea di Claudia.

Giulia sta intraprendendo l’anno sabbatico post laurea e, al suo ritorno, intende specializzarsi in dermatologia, a novembre Claudia inizierà la specializzazione in chirurgia, Cristina ha sostenuto il test di specialità in pediatria pochi giorni dopo la laurea, Sofia Maria nel suo futuro vede una specializzazione in gastroenterologia.

Le quattro dottoresse si trovano a Usokami, un piccolo villaggio nel cuore della Tanzania, che è situato vicino alla città di Iringa, capoluogo della regione omonima di circa 100.000 abitanti e a circa cinque ore di strade dissestate dalla capitale Dodoma. Si trovano su un altopiano a duemila metri con un clima che risente della forte escursione termica tra il giorno e la notte.

La conoscenza reciproca di Giulia con Cristina e di Claudia con Sofia Maria le ha portate ad arrivare in questo luogo nel cuore dell’Africa Subsahariana e ad incontrarsi. Sono arrivate nella prima settimana di settembre e vi rimarranno fino alla prima settimana di ottobre.

Operano in una struttura privata fondata dalla diocesi di Bologna. La connotazione di struttura privata non deve far pensare, nel nostro modo di vedere la realtà mediata dal sistema sanitario italiano, come ad una realtà che si sostiene e genera profitto a chi la gestisce. Siamo bèn lontani da tutto ciò, tanto è vero che senza l’intervento in primis della diocesi e poi dei benefattori, l’ospedale non esisterebbe.

Racconta Claudia: “Nella mia testa c’è sempre stata l’idea di fare un periodo di volontariato medico in Africa. Tramite amici avevo sentito parlare del Madagascar come possibile meta ma la preponderanza della lingua francese, che non parlo, mi ha portato a cambiare destinazione. Sono entrata in contatto con la suora che gestisce il centro di Usokami tramite l’Università di Modena che ha una collaborazione di lungo corso con questa realtà”.

“Essendo amica di Claudia – continua Sofia Maria spesso ne abbiamo parlato come di una intenzione comune. Mia mamma lavora all’ospedale di Negrar e un po’ mi aveva raccontato di possibili esperienze di volontariato avendo loro contatti con missioni. La scelta di condividere questa esperienza con Claudia è stata naturale”.

Io e Cristina – ci racconta Giuliasiamo arrivati qui grazie al nostro Professore di Malattie Infettive di Modena, il Prof. Giovanni Guaraldi, che opera qui a Usokami da trent’anni. Che è anche il contatto per Claudia e Sofia Maria. Dove aver consolidato le relazioni in loco ha iniziato anche ad indirizzare giovani medici come noi a vivere questa esperienza. Per cui ciclicamente gruppi di studenti da Modena sono qui a fare ed esperienza di volontariato” .  

Ai pazienti viene richiesta una co-partecipazione alla spesa delle prestazioni – ci racconta Cristinache spesso e volentieri è inesigibile data l’indigenza in cui gli stessi vivono. Parliamo di cifre talmente risibili che farebbero sorridere un qualsiasi cittadino italiano che entra in una struttura pubblica o privata italiana. Per cui una buona parte delle prestazioni erogate a Usokami sono pro bono.”.

Non si può parlare di ospedale inteso come struttura costituita da vari reparti in base alla specialità. Diciamo che è più una clinica di medicina generale in cui esiste una distinzione di gestione tra uomini, donne e bambini. Con uno specifico spazio dedicato alla maternità. Nell’ambito di afferenza appena descritto, si cura, o meglio ci si prova, tutto quello che può arrivare. Bambini che hanno polmoniti, dermatiti, gastroenteriti sono tutti assieme, non può essere diversamente.

Ci sono degli ambulatori, costituiti da stanze semivuote, in cui si trova un lettino e poco altro. Una di queste funge da Pronto Soccorso. L’accoglienza medica è minimale, qualche esame ematico ma niente di più. Una parte del tetto della struttura è in forte degrado ed è collassato, qualche giorno fa, nel pieno dell’operatività giornaliera. L’unico apparecchio RX è stato di conseguenza spostato e ora è non in uso. Si spera lo possa tornare, sempre che nel frattempo non si guasti. C’è un ecografo ma l’ecografista ha competenze di base, c’è un radiologo le cui competenze arrivano fino ad un certo punto, mancando la formazione specifica.

I locali medici laureati sono due, che per altro non operano in contemporanea. In questo periodo uno dei due è fuori servizio per un mese per cui l’altro è reperibile h 24 7 giorni su 7 per qualsiasi evenienza. Sono medici che hanno lo stesso curriculum di studi delle nostre dottoresse, quindi sei anni di medicina. Ma le necessità impellenti li impegnano su molti e diversi fronti. Si devono occupare di tutte le patologie che incontrano, con le difficoltà e le conseguenze del caso sulle diagnosi finali.

Esistono poi delle figure intermedie tra medici ed infermieri. Sono i cosiddetti clinical officers, le cui competenze risentono purtroppo del livello basso di formazione che hanno ricevuto. Le nostre dottoresse sono, al momento, gli unici medici stranieri presenti.

Nei corridoi è un via vai di bambini e uomini ammalati assieme a donne incinte. I concetti di prevenzione dalla diffusione di malattie e cura selettiva sono aleatori. La realtà di convivenza in questa struttura sanitaria non è nemmeno minimante immaginabile nella nostra capacità di comprensione di italiani.

In ogni direzione in cui volgi lo sguardo – ci dicono all’unisonoci sono bisogni evidenti. Stabilire delle priorità è veramente dura, tutto serve con la stessa priorità. Mancano farmaci, mancano prodotti per l’igiene personale, cambi di biancheria per garantire un minimo di protezione da possibili contagi, sui letti hanno coperte che si portano da casa spesso non pulite e sporche di sangue, su medicazioni esposte. Essendo una struttura privata non riceve denaro da finanziamenti pubblici. La sostenibilità, come dicevamo, arriva dalla diocesi di Bologna e da donazioni. Poco, se non niente, dalle rette che gli utenti, se ce la fanno, riescono a pagare”.

La giornata lavorativa in clinica inizia il mattino e poi, a seconda degli accessi, dura di solito fino al primo pomeriggio. A volte le dottoresse sono richiamate per urgenze tipo cesarei. Il pomeriggio si recano al villaggio dove esiste una casa famiglia per bambini orfani gestita dalle suore. Lì intrattengono i bambini facendoli disegnare o giocare anche con le bolle di sapone, una distrazione semplice che loro vivono con una gioia che emoziona. Sì è sparsa la voce che delle dottoresse vengono nel villaggio a far giocare i bambini per cui ad accoglierle ce ne sono più di trenta che gridano e saltano felici. “Una emozione immensa!”, ci dicono all’unisono con gli occhi che brillano di gioia.

All’interno della clinica ci racconta Cristinanon è facile farsi capire. Solo chi ha studiato riesce ad esprimersi in un inglese basico, per il resto la lingua ufficiale è lo swahili, la lingua natia. Il dialogo medici pazienti è in swahili. Anche noi lo stiamo studiando per cercare di capire e di farci capire un pò. La visita pediatrica completa più o meno la riusciamo a fare in autonomia. I bambini, di primo acchito, ci vedono come degli ‘alieni’ di pelle bianca e piangono. Poi con qualche parola in swahili riusciamo ad entrare in empatia con loro e la paura degli alieni sparisce”.

Per sostenere questa realtà le nostre dottoresse hanno deciso di aprire una raccolta di donazioni utilizzando il portale di fundraising GOFUNDME. L’iniziativa si chiama “Let’s help Usokami Hospital (Tanzania)” ed è possibile effettuare donazioni on-line con l’utilizzo della carta di credito (questo il link: https://www.gofundme.com/f/lets-help-usokami-hospital-tanzania).

Il target individuato per la raccolta fondi che hanno messo in piedi, tra gli innumerevoli bisogni che ci sono, punta alla maternità, l’ostetricia e la natalità in genere. “Ci sono famiglie anche di dieci figli”, raccontano. E aggiungono: I parti sono all’ordine del giorno, le complicanze idem, gli interventi chirurgici che si svolgono in clinica sono solo per parti cesarei. Abbiamo individuato in un bene di prima necessità l’acquisto di un cardiotocografo, uno strumento che premette di monitorare la frequenza cardiaca fetale e le contrazioni uterine. Tra i tanti parti che seguiamo molti hanno un esito letale per il nascituro. Quelli naturali seguono un decorso abbastanza regolare, quelli complicati è quasi impossibile gestirli con quello che si ha a disposizione. Il loro decorso potrebbe essere diverso se solo si potesse disporre di attrezzature e conoscenza”.

“Proprio sulla conoscenza – continuano – vogliamo investire una parte di quello che ricaveremo: ci piacerebbe far partire un progetto di monitoraggio delle gravidanze. Vuoi per incapienza degli utenti vuoi per carenza di fondi risulta difficile fare monitoraggi periodici delle gravidanze invitando le future mamme a fare dei controlli di inizio e fine gravidanza, controlli del sangue, per fare una corretta datazione. Potremmo anche mandare il nostro radiologo a fare della formazione in un ospedale pubblico qui vicino. Il nostro sogno sarebbe creare un laboratorio dedicato alla corretta gestione della gravidanza”.

Tanto per dare un’idea di quale sia l’obiettivo minimo che si vuole raggiungere: fare una visita di questo tipo ha un costo di 7 euro. Farne due, che rappresenta il minimo sindacale nell’arco della gravidanza, significa sostenere una spesa di 14 euro. Che rappresenta una cifra enorme per la possibilità media delle famiglie. Tant’è che molte donne non fanno la visita perché non se la possono permettere. L’idea sarebbe quella creare, con la raccolta, un piccolo fondo per calmierare tale spesa riducendola in capo alla partoriente.

La clinica di Usokami è grande rispetto alle necessità locali, ma può essere un hub per tanti piccoli villaggi attorno nei quali opera la figura del clinical officer, che può fare da riferimento locale per questo progetto. Una sorta di rete della maternità che è al vaglio di Suor Grace, la coordinatrice della pediatria.

Sulla gravidanza qui si ha una concezione che deriva da una cultura in cui, la gravidanza stessa è una cosa che segue il suo decorso naturale”, spiegano. E continuano: “Le donne partoriscono in silenzio e da sole. I padri non sono presenti. La gestione del dolore da parto non esiste o è limitata a 10 cc di lidocaina, cioè acqua fresca. Le donne soffrono senza emettere alcun grido di dolore. Soffrono in silenzio tremando come foglie. Gli aborti spontanei vengono seguiti con il curettage chirurgico senza anestesia e non con gli aspiratori, nonostante ci siano. Nessuno li sa usare. La donna che da parte da casa per venire a partorire viene istruita a non piangere e a non urlare quando soffre e non dimostrare il dolore, per non creare disagio in chi la assiste. Noi manifestiamo il nostro dispiacere per quello che accade e la partoriente ci ringrazia…..I parti cesarei complicati non hanno una assistenza adeguata. L’altro giorno una ragazza molto giovane ha avuto una morte fetale a cui è seguita una emorragia perché ha avuto la rottura dell’utero. Non avendo avuto cure immediate ed efficaci la ragazza è deceduta. Questa la triste realtà”. Rabbrividisco nel sentire i loro racconti.

C’è un gran bisogno anche di apparecchiature a supporto della diagnosi, anche se di seconda mano purché funzionanti. L’appello è rivolto a ospedali privati o pubblici italiani che alienano, per raggiunti limiti di età di utilizzo, attrezzature che potrebbero essere manna dal cielo per la clinica di Usokami. Rivolgono poi un appello a medici o infermieri in pensione affinché possano prendere in considerazione l’idea di donare un po’ del proprio tempo per formare gli operatori locali, con lo scopo di creare una cultura medico diagnostica che valorizzi gli sforzi che si stanno facendo.

È il momento del commiato e chiudiamo con una riflessione che ognuna di loro fa rispetto all’esperienza che sta vivendo.

Ero partita – ci dice Sofia Marianon sapendo bene cosa avrei incontrato. Il caso della ragazza di cui abbiamo raccontato, mia coetanea avendo anche lei 27 anni, mi ha fatto riflettere sul fatto che, vivere o non vivere sulla propria pelle queste vicende dipende solo dalla fortuna che hai avuto o meno di nascere e vivere in Paesi come l’Italia. Dalla parte giusta o sbagliata del mondo. Giusta o sbagliata nel senso di poter vivere o meno una vita dignitosa e serena. Vivi il senso frustrante dell’ingiustizia e dell’impotenza”.  

È una esperienza incredibile e stupenda! – ci dice CristinaFinchè non la vivi e non ti ci immergi non puoi capire. Quando la mia famiglia mi chiede come è andata la giornata faccio fatica a selezionare cosa dire in mezzo alle esperienze tutte probanti che mi trovo ad affrontare. Il mio parere ha valore, quello che dico viene preso in considerazione, mi sento accolta come medico. È come se, per la prima volta nella mia pur breve carriera di medico, mi sentissi di valere per qualcuno. Fosse anche tenere la mano ad una donna che sta abortendo senza anestesia è qualcosa che ha alleviato la sua sofferenza”.

La lugagnanese Claudia aggiunge: “Anche per me è una esperienza molto difficile da raccontare. Sono partita con l’idea che avrei fatto fatica ad ambientarmi e a trovare la mia collocazione, ma già dal primo giorno ti senti a casa. Questa sensazione mi ha molto sorpreso. L’alternanza di giornate splendide con giornate di estrema difficoltà ti fa sentire sulle montagne russe dell’emotività. Basta un pomeriggio a contatto con i nostri bambini a dare loro semplicemente il cinque a tramutare una giornata difficile in un momento di gioia. Un’altra sensazione che riempie è che, mentre i primi giorni temi l’affrontare cose che non conosci, in quelli successi sviluppi il problem solving. Dalla staticità data dalla paura di non sapere, si passa dalla dinamicità del: se questo è il problema come lo posso risolvere? I piccoli progressi nei pazienti che hai in cura ti gratificano e ti danno un po’ di sicurezza in più”. Stimoli professionali ed umani alla ennesima potenza che diventano un tutt’uno.

Sono cosciente – ci dice Giulia del fatto che quando tornerò a casa la mia realtà e la mia consapevolezza saranno totalmente rivoluzionate. Sarà importante testimoniare a far conoscere ad altri quello che ho visto qui a Usokami. In parte lo stiamo già facendo con la raccolta fondi che abbiamo aperto. La realtà qui è nuda e cruda, non c’è niente di edulcorato. Essere professionisti sanitari del futuro significa anche farsi permeare da questi momenti e da queste realtà. Qui siamo accolte a braccia aperte, veniamo trattate come delle celebrità. Tutti hanno un sorriso per noi che è mosso, pur nella miseria più totale, da un profondo senso di riconoscenza. I bambini che ci vedono da distante ci salutano urlando festanti. Il rapporto con i colleghi medici locali è di scambio, di questo loro sono molto grati”.

Confesso che questa intervista mi ha fatto venire una stretta al cuore. Una stretta però che genera la stessa reazione che è ben raccontata da Claudia: questa è la realtà, cosa si può fare?

Il prossimo 18 ottobre presso la Baita degli Alpini di Lugagnano si terrà una intensa serata, nel corso della quale le quattro dottoresse racconteranno con foto e testimonianze la loro esperienza.

Sono nato a Bussolengo l'8 ottobre 1966. Risiedo a Lugagnano sin dalla nascita, ho un figlio. Sono libero professionista nel settore della consulenza informatica. Il volontariato è la mia passione. Faccio parte da 30 anni nell'associazione Servizio Operativo Sanitario, di cui sono stato presidente e vicepresidente e attualmente responsabile delle pubbliche relazioni. Per 8 anni sono stato consigliere della Pro Loco di Sona. Ritengo che la solidarietà, insita nell’opera del volontario, sia un valore che vale la pena vivere ed agire. Si riceve più di quello che si dà. Sostengo la cooperazione tra le organizzazioni di volontariato di un territorio come strumento per amplificare il valore dei servizi, erogati da ognuna di esse, al cittadino.