“Post-verità”: il prezzo della libertà sul web?

La calunnia è un venticello / un’auretta assai gentile / che insensibile, sottile, / leggermente, dolcemente / incomincia a sussurrar. Piano piano, terra terra, /sottovoce, sibilando, / va scorrendo, va ronzando; / nelle orecchie della gente / s’introduce destramente / e le teste ed i cervelli / fa stordire e fa gonfiar.
Gioachino Rossini in Il barbiere di Siviglia

Secondo gli Oxford Dictionaries l’espressione post-truth (“post-verità” in italiano) è diventata la «parola dell’anno 2016». I cervelloni che lavorano per il prestigiosissimo e celeberrimo vocabolario britannico hanno portato in auge questo neologismo (che proprio nuovo, però, non è, dato che lo sceneggiatore Steve Tesich lo coniò per la prima volta nel 1992) in quanto viene applicato a «circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti nel modellare l’opinione pubblica degli appelli emotivi e delle convinzioni personali».

Post-verità significa bufala, notizia falsa, disinformazione.

Stando alle dichiarazioni di Casper Grathwohl, degli Oxford Dictionaries, alla BBC, il termine “post-verità” nel 2016 è rimbalzato sui social networks e sulle testate giornalistiche di tutto il mondo con un incremento del 2000% rispetto al 2015; ciò in coincidenza con la Brexit prima, l’elezione di Donald Trump poi.

Ma si è parlato di bufale anche in vista del nostro referendum costituzionale, e il mese scorso, quando Mark Zuckerberg in un suo post ha esplicato che su Facebook sta lavorando «per costruire una comunità più informata e combattere la disinformazione.»

In Italia ha pensato di accendere la miccia Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, che in un’intervista al Financial Times ha dichiarato, sicuramente in buona fede: «I pubblici poteri devono controllare l’informazione.»

Dichiarazioni che hanno fatto sbroccare Beppe Grillo, il quale si è scagliato contro tutti i giornali e gli altri mass media mainstream, invocando (addirittura) una giuria popolare chiamata a mettere un proprio giudizio sulla veridicità della fonte. Apriti cielo. Il giornalista Enrico Mentana è rimasto indignato dalle parole di Grillo e ha minacciato querela.

 

Le recenti diatribe Pitruzzella-Grillo e Grillo-Mentana sono solo un paio di esempi fra tutti gli incommensurabili e indefiniti sintomi che sta vivendo la società occidentale oggi.

Ma andiamo con ordine.

Le critiche di Pitruzzella e Grillo sono umanamente comprensibili: l’uno fa emergere il problema della diffusione di “notizie palesemente false”, l’altro, invece, non sopporta l’idea di un controllo da parte di un’istituzione orwelliana.

Il problema nasce, tuttavia, dal mercato delle fake news, ovvero delle bufale in senso stretto. E come tutti i mercati, il mercato dell’informazione nasce da uno scambio economico, dall’incontro della domanda e dell’offerta. Così è sempre stato, dall’alba dei tempi: secoli fa c’erano l’atavico e la magia, i complotti e i sortilegi. La gente è sempre (stata) disposta a pagare per ottenere informazioni di carattere soprannaturale o mistico, e la domanda ha sempre stimolato l’offerta.

Veniamo ad oggi e alla comparsa di internet. Sulle piattaforme multimediali e sui social networks ora non più elitari, ma alla portata di tutti, la domanda si è notevolmente allargata, la concorrenza si è fatta spietata, la tecnologia ha sviluppato l’offerta e i prezzi sono scesi, ormai azzerati: chiunque può leggere e condividere notizie, tutti possono fabbricarle e divulgarle, subito e velocemente. Sul web, infatti, la velocità è tutto: la comunicazione di un fatto o di un pensiero, la pubblicazione di un post o di una notizia avvengono istantaneamente; e i rischi di abbagli non sono pochi.

Internet e i social networks a volte assumono le sembianze del far west: al di là dei commenti dei leoni da tastiera, molto spesso si leggono notizie folli condivise anche da nostri concittadini: dal referendum costituzionale del 4 dicembre al gender, dall’economia alla politica, dalla medicina alla religione.

I social networks e le altre piattaforme web in generale stanno maturando la tendenza di divenire un luogo di selvaggia parresìa, in cui la libertà di esprimere la propria opinione è giustificata dal dovere di farlo, e le opinioni contano sempre di più dei fatti. E la religione è la dossocrazia, principio per il quale le opinioni pullulano e gli “argomenti del momento”, i top trend, non stimolano la ricerca e l’approfondimento ma sono una garanzia bella e buona per tutti coloro che vogliano versare un parere anche quando non hanno le conoscenze adeguate per esprimersi.

Tra notizia ed opinione c’è (e ci deve essere) un discrimen sacrosanto: non è lecito né opportuno piegare la complessità dei fenomeni alla nostra ragione e ridurla a chiacchiera da bar; e non è nemmeno etico prendere una posizione pro o contra una questione a prescindere, e senza approfondirne le radici, l’essenza e la prospettiva.

L’Occidente sta vivendo una crisi interna profondissima, politica ed identitaria, culturale e sociale. È indubbio, infatti, che la globalizzazione abbia rimodellato la società odierna, in cui i concetti di destra e sinistra classici sono stati superati, e il confronto ideologico si stia sintetizzando tra populismo ed establishment, tra sovranisti e globalisti, tra anticonformisti e chi vuole mantenere lo status quo. Se ciò che conta, oggi, non è tanto il vero o il falso, ma l’opinione forte o debole, occorre un’inversione di tendenza, cercare e perseguire la Verità. Con umiltà. Perché l’era della post-verità non è solo quella delle bufale (che sfociano sia da una parte sia dall’altra, sia chiaro), ma anche quella che bandisce il silenzio riflessivo e abusa del diritto di libertà di pensiero.

Se la verità in sé è inesauribile e inoggettivabile (definizione di Pareyson), le sue interpretazioni divengono molteplici, storiche e personali. Per quanto una fonte possa essere attendibile e veritiera, una notizia non potrà mai definire la verità nero su bianco; ci sarà sempre una parte di verità non esplicita, ed è compito del lettore scovare quella notizia più vicina alla verità recandosi in edicola, comprando questo o quel giornale, spingendo il tasto del telecomando o cliccando sulla pagina digitale che più si ritiene opportuna.

Il lettore deve possedere la libertà di poter scegliere cosa leggere, e le bufale rappresentano il prezzo di tale libertà. Pertanto, è assolutamente sbagliato affidarsi ad un’“inquisizione del web” per verificare l’attendibilità delle notizie (quali sono i parametri per decidere cosa sia vero e falso? Qual è il limen dell’azione? Se la chiacchiera al bar è concessa, perché sulla rete non può esserlo?)

Disapprovo quel che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo.
François-Marie Arouet Voltaire

E così come è riconosciuta la libertà di scegliere, così dev’essere riconosciuta la libertà di poter rendere il web un ambiente salubre e pulito da notizie fasulle e fuorvianti; la strada è ancora lunga, ma occorre iniziare da una sinergia di questi tre passaggi: sul livello tecnologico occorrerebbe sviluppare un algoritmo sempre più efficace di “social rating”, grazie al quale le segnalazioni degli utenti siano in grado di limitare la visibilità delle fake news; sul livello economico, sarebbe necessario aumentare le barriere all’entrata o, meglio, incrementare il costo della reputazione per tutte le riviste digitali e non; sui livelli culturale e sociale, occorrerebbe coltivare una consistente e solida cultura digitale, sviluppare un maggior senso critico di fronte ad un contenuto (anche verso questo articolo, ad esempio).

Nato nel 1994 e residente a Lugagnano, scrive per il Baco dal 2013. Con l'impronta del liceo classico e due lauree in economia, ora lavora con numeri e bilanci presso una società di revisione. Nel (poco) tempo libero segue con passione la politica e la finanza e non manca al suo inderogabile appuntamento con i nuovi film al cinema (almeno) due volte a settimana. E' giornalista pubblicista iscritto all'ordine dei giornalisti del Veneto.