“Per un vero motociclista nessun luogo è mai lontano”. Mario Grazioli, sonese mototurista nel mondo, si racconta

Mario Grazioli, residente a Sona, ha trascorso buona parte della carriera professionale lavorando per BMW Italia, in un ruolo che gli ha permesso di compiere esperienze straordinarie: ideare ed organizzare le Grandi Motovacanze BMW “Top Dream”, un progetto di fidelizzazione clienti che gli ha permesso di portare più di 600 equipaggi in giro per il mondo. In questa intervista ci racconterà alcuni aspetti di questa importante esperienza.

Mario, eri figlio del medico del paese, come sei approdato in BMW e cosa ti ha portato a compiere questi grandi viaggi in moto?

Mi sono laureato in legge e dopo qualche mese di noioso praticantato in uno studio legale, mi fu offerta un’opportunità professionale in BMW Italia, che allora aveva sede qui a Sona. Sono da sempre un appassionato di motori. Colsi l’occasione ed accettai subito. Stiamo parlando del 1970. Otto anni nel marketing auto poi, nel 1978, la decisione di essere nel Team costituito per il rilancio e lo sviluppo del settore moto BMW in Italia, a quell’epoca praticamente inesistente. Come responsabile marketing, e nel contesto di attività di promozione del prodotto, ho avuto modo di frequentare molti clienti che, avendo acquistato la moto da Gran Turismo per eccellenza, avevano voglia di grandi viaggi, che, per vari motivi, erano destinati a rimanere sogni nel cassetto. Percepita questa esigenza mi venne l’idea, devo dire davvero geniale e un po’ folle, di organizzare progetti di viaggio esclusivi e riservati ai clienti. I must del viaggio dovevano essere: meta importante, itinerari scelti per le moto, forte contenuto culturale ed emozionale, ed una grande organizzazione logistica e di supporto. Questa doveva esser la caratteristica della motovacanza BMW “Top Dream”, un’esperienza avventurosa ma sicura, fatta in sella alla propria moto, compagna insostituibile delle emozioni di viaggio.

Ci racconti dei viaggi “Top Dream”, come si svolgevano?

Organizzare una Grande Motocacanza BMW non era certo una cosa semplice. In sintesi: scelta della destinazione (Europa o altri continenti), definizione dell’itinerario, valutazione delle logistiche (hotel e servizi) per determinare il numero dei partecipanti, comunicazione del programma a mezzo stampa specializzata, raccolta e selezione delle iscrizioni. Nei viaggi extraeuropei il trasferimento delle moto era a mezzo container, via mare. Di norma ci volevano un paio di mesi per portarle a destinazione nei siti di partenza. Halifax per il Canada, Los Angeles per USA West, Darwin per Australia. Tracciavo l’itinerario con la massima attenzione per i percorsi più spettacolari e motociclisticamente avvincenti e sulla base di solide conoscenze ed informazioni. Ero il responsabile del gruppo, mediamente composto da 30/40 equipaggi, che vuol dire 60/80 partecipanti. Nel Top Dream USA WEST 1987, siamo arrivati a 120 persone. Una cosa spettacolare. L’organizzazione prevedeva una serie di servizi e di supporti che dovevano garantire la massima tranquillità ai partecipanti. Operatore turistico per assistenza negli alberghi, personale di supporto su mezzi di servizio, assistenza tecnica con furgone attrezzato, parti di ricambio e carrello con due moto di scorta. Medico, cineoperatore, fotografo. Insomma, un team altamente professionale e capace di affrontare ogni situazione. Da tener conto che i partecipanti non viaggiavano in carovana, ma ciascuno era libero di interpretare la sua tappa seguendo le informazioni ed i suggerimenti del road book. Solitamente, dopo un paio di giorni, si formavano piccoli gruppi che viaggiavano insieme, per condividere le quotidiane emozioni del viaggio. A sera, dopo cena, c’era il briefing e per sentire opinioni, esperienze personali e presentare la tappa successiva. Non siamo mai stati “turisti per caso“ ma viaggiatori molto preparati e responsabili. Lo scopo era immergersi nel luogo e tra la gente, una cosa che riesce meglio con la moto che con l’auto. Affrontare questi viaggi ti faceva conoscere profondamente le varie culture, non si visitavano solo i monumenti, ci si relazionava con la gente del posto. Questo ha portato ad esperienze umane talvolta struggenti, in particolare quando incontravamo le comunità italiane nei luoghi più sperduti, come a Timmins, nell’Ontario in Canada o negli avamposti più sperduti in Australia.

In quali paesi sei stato e quali sono quelli che ti hanno colpito di più?

Ho viaggiato in tutti i cinque continenti, da Capo Nord al Capo di Buona Speranza, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, Patagonia, India, Australia e Nuova Zelanda, Usa West, Baja California… solo per citarne alcuni. Tra le mie mete predilette metto l’Alaska, la Patagonia, molto avventurosa, il Messico… Devo dire che in tutti i paesi ho avuto memorabili esperienze. Ricordo quando eravamo nel bel mezzo del deserto australiano, ad Alice Springs, e ho portato il mio gruppo a guardare le stelle. Lo spettacolo che ci si presentò era mozzafiato, non eravamo abituati a vedere un cielo così stellato, nel buio più totale e nel silenzio più assoluto. La sensazione di essere parte dell’universo che ho avuto in quel momento è indimenticabile. Negli USA abbiamo seguito l’itinerario dei pionieri, andavamo fuori dagli schemi dei viaggi tradizionali, molta gente si chiedeva cosa ci facesse un gruppo di motociclisti italiani dalle loro parti, ma l’originalità era la cosa che ci contraddistingueva. In California ad un certo punto ci siamo fermati ad un bar lungo la strada, in cui si era radunato un gruppo di motociclisti Harley-Davidson, loro erano tutti tatuati, capelli lunghi, erano i classici “bikers”. Il mio gruppo di “biemwuisti” era formato da avvocati, medici e professionisti. Tutti ci guardavano strano perché all’estero il motociclista veniva visto come un tipo alternativo, che dorme nei campeggi, non nei grandi alberghi come facevamo noi. Ci sono posti dove non ritornerei, sono cambiati troppo, come la Turchia o la Norvegia. Inoltre, alcune delle cose che abbiamo fatto allora oggi non sono più ripetibili; per esempio noi siamo arrivati direttamente sotto le Piramidi o Abu Simbel con le moto, abbiamo scalato l’Ayers Rock, tutto questo oggi, e giustamente, non è più permesso.

Che moto utilizzavate? Immagino non fossero sempre strade facili…

Le moto erano ovviamente tutte BMW, nei diversi modelli e cilindrate. Dalle piccole R45 alle poderose R o K 1200. Personalmente, quando mi era concesso dagli impegni organizzativi, guidavo una BMW GS, era la moto più comune nel gruppo. La GS è nata per essere utilizzata sia sull’asfalto che sugli sterrati ed aveva una straordinaria adattabilità ad ogni terreno.

Vedendo le vostre destinazioni devono essere stati viaggi molto lunghi, quanta strada percorrevate?

Facevamo anche viaggi da 12000 km, come quello a Capo Nord, e le tappe erano variabili. Potevamo fare 200-300 km al giorno, ma anche fare tapponi di avvicinamento di 800 km. La distanza non è mai stata un deterrente, perché per un mototurista vero nessun luogo è mai troppo lontano.

Come preparavi l’itinerario?

Dietro ogni itinerario c’era un mondo di letture. Fin da bambino ho avuto un forte interesse per i libri ed i reportages di viaggio. Conrad, London, Melville e tanti altri hanno riempito i miei sogni giovanili. Poi sono arrivati Kerouak, Steinbeck, Catwin, Least Heat Moon, Pirsig, con il libro cult “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”… e tanti altri. Avevo una grande curiosità per il mondo ed i mondi da loro descritti. E così, a casa, nei fine settimana, preparavo i miei itinerari da sogno, per me e per i fortunati che hanno potuto seguirmi e condividere emozioni irripetibili ed indimenticabili.

Mi dicevi che hai avuto modo di conoscere molti aspetti delle varie culture proprio grazie a questo particolare tipo di viaggio, e che informarsi prima era importante, giusto? Raccontaci qualche aneddoto.

Dodici anni di viaggi, oltre trenta Paesi visitati nei cinque continenti, quanti chilometri? Certo più di trecentomila, quanti ricordi? Infiniti. La notte passata a Timmins, ad ascoltare le storie romanzesche di emigrati che ci avevano accolto con grandi cartelli di benvenuto, ed il pranzo offerto nella loro sede, dando fondo a tutte le riserve di cibi venute dall’Italia. Alla partenza un grande cartello ci chiedeva di rimanere un altro giorno. Disperata voglia di Italia. Una storia da raccontare e che ancora oggi mi commuove. Altra storia al porto di Darwin, in Australia, quando la nave che trasportava le nostre moto arrivò, gli scaricatori di porto fecero sciopero. Una situazione che poteva compromettere tutto il programma di viaggio. La trattativa sembrava senza sbocco, quando ci fu consigliato di offrire agli scioperanti (non più di dieci persone) una cassa di birra. Il capo, che aveva origini italiane ed una faccia da vecchio pirata, accettò e riuscimmo a far scaricare i due container con le moto. In India invece, alla dogana, gli ultimi cinque metri di trasporto per scaricare le moto venivano fatti da uno folto gruppo di facchini, invece che con il muletto. Chiesi alla guida il perché di tutto questo personale superfluo. Mi rispose con un sorriso. “Con il muletto avrebbe lavorato un solo uomo. In questo modo hanno lavorato in tanti, ed ognuno di loro si è guadagnato le poche rupie per mangiare anche oggi”. Dal 1980 al 1995 ho organizzato questi viaggi, ritengo di essere stato molto fortunato ad avere svolto un’attività di questo tipo, che comunque faceva parte del mio ruolo da responsabile marketing. Certo, a ripensarci, è stato un impegno di grande responsabilità, ma anche molto gratificante in quanto ho fatto per professione quello che gli altri sognavano. Non a caso il progetto si chiamava “Top Dream”.

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