La strage nella scuola del Texas e il rischio dell’indifferenza che viviamo anche sul nostro territorio

Trovarsi al cospetto di una notizia di portata così drammatica comporta una certa forma di riflessione, l’ennesima, e di certo non l’ultima. Un altro doloroso colpo inferto all’umanità tutta, che tenta costantemente di risalire la china del disagio ma che maldestramente non ci riesce e quindi se accadano ancora e ancora stragi di questo calibro dovremmo un attimo soffermarci e capire.

Perché non è poi così lontano da noi e perché se ne parla ancora troppo poco. Cos’è questo senso di pudore, questa paura, questo continuo nascondere sotto il tappeto della quotidianità realtà troppo complicate, sì, ma anche così maledettamente vicine a noi? I segni se li si vuole cogliere ci sono, si palesano a chi li vuole intendere, trattenere e portare in evidenza.

Ciò che è accaduto in Texas, notizia di qualche giorno fa, non è di certo la prima strage né il primo episodio che ci sconcerta e ci appanna il cuore e l’animo, ci toglie il fiato e la presunzione di essere persone per bene, ma è piuttosto un altro allarme che riecheggia nella nostra società con gravi lacune a livello comunicativo ed umano.

Siamo a conoscenza forse di un decimo di quanto accade davvero nel privato di ciascuno e siamo molto più intenti a fare propaganda di buoni intenti quando se entrassimo realmente in alcune determinate dinamiche sono certa ne usciremmo devastati ed inermi, convinti una volta per tutte che non siamo nulla confronto a disagi psicologici e di conseguenza sociali.

Quanto fitto sia il sottobosco delle problematiche umane non ne abbiamo idea e per arrivare a comprenderle poi non ci sono abbastanza specializzazioni o master che possano farlo. Quello che ha portato Salvador Ramos (il ragazzo che ha eseguito la strage di martedì 24 maggio alla Robb Elementary School di Uvalde, in Texas) a compiere cio’ che ha fatto non lo si deduce da qualche foto o messaggio passato sui social. Con buona probabilità nemmeno chi girava intorno alla sua orbita si sarà reso forse conto (o forse sì e ha lasciato perdere?) di un qualche sentore di instabilità e magari invece quel qualcuno l’avrà anche notato ma il proseguo non è mai avvenuto, cioè non vi è stato sufficiente approfondimento.

Il passo successivo di apertura e comprensione non è accaduto, quindi ed ora ci sono le ennesime anime disperate che irrimediabilmente si troveranno a fare i conti con un’atroce sofferenza che meriterebbe un accudimento psicologico ben oltre quello che avranno davvero. Famiglie inevitabilmente distrutte, con un deficit emotivo senza eguali.

Il giudizio a sfavore di questo diciottenne lascia poi il tempo che trova. Io non giudico: mi interrogo, esamino, soffro, mi immedesimo. Insieme all’incomprensibilità di scelte che rientrano in una politica che definisco di basso profilo (cosa ci sia da vantarsi nella libertà di possedere liberamente armi e dispiacersi anche perché il Texas è solo al secondo posto per gli acquisti di nuove armi dietro alla California, non mi è chiaro, tutt’altro) mi sorge naturale una domanda che si sposa bene anche in altri ambiti: dove andremo a finire? Anzi, che deriva stiamo già prendendo?

La colpa alla pandemia, alle lobby statunitensi (e non solo) delle armi, alle nuove incapaci generazioni, al limitato controllo, all’espandersi di un’individualità frettolosa, superficiale, sporca sono solo scuse, sono aggressioni verbali, e non, che acuiscono questo latente senso di scomodità che sfocia vergognosamente in un’indifferenza imbarazzante.

In questo momento storico ciò che ci riporta alla realtà non deve essere il fatto di cronaca sotto i riflettori che ci sbatte in faccia la bruttezza umana bensì dev’essere il dovere di conoscere davvero le realtà sociali complesse che abbiamo vicino a noi, per tessere le fila di un lavoro di solidarietà ed aiuto concreto che sconfina nell’immedesimazione dell’altro e che porterebbe forse a quell’empatia che tutti predichiamo ma che nessuno o pochi concretizzano. Io per prima.

Ed io per prima sono stanca, avvilita da queste voci poco incisive, silenziose e talvolta anche poco concrete. Mi torna in mente un film di qualche tempo fa, Il Miglio Verde, dove magistralmente si affronta un tema che presenta una lettura chiara. C’è una certa persona che si fa carico, per uno strano disegno del destino (o fatalità) del male altrui per non riuscire ad un certo punto a farcela più. Ma con questo suo portarsi dentro la malvagità del prossimo in tutte le sue più disperate forme compie un gesto di una portata grandiosa: l’amore.

Riporta l’amore in coloro che l’avevano perduto, un amore magari effimero, oppure volitivo ma di certo non banale, e non è cosa da poco. L’amore, in tutte le sue forme e in tutta la sua bellezza ci deve costringere a fare di più, ora e sempre.

Non abbiamo una seconda vita, una seconda possibilità di redimerci: facciamolo.

Da quasi 15 anni Lugagnano è per me e la mia famiglia divenuta casa. Sono nata il 6 aprile 1981, mamma pasticciona, mi definisco un’accanita fan della vita. Mi piace modificare la mia prospettiva sul mondo e sulle cose e considero i cambiamenti fonte di potenti opportunità (ovvero adoro mettermi continuamente in discussione).