La strage del Vajont 57 anni dopo. Mazzi e Pasquetto da Lugagnano: “Ecco cosa vedemmo”

“9 ottobre 1963. 260 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal Monte Toc e franano nel lago, sollevando un’onda di 200 metri. 25 milioni di metri cubi d’acqua si abbattono sui paesi di Erto, Casso, sulle frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Patata, Il Cristo, Frasein. 160 morti. 25 milioni di metri cubi d’acqua scavalcano la diga e precipitano verso la piana del Piave. Vengono spazzati via dalla faccia della terra: Longarone, le frazioni di Pirago, Rivalta, Villanova, Faè, il paese di Castellavazzo, con la frazione di Codissago e la borgata di Vajont. 2000 morti”.

Parole e frasi lapidarie: i titoli di coda del film “Vajont – La diga del disonore” di Renzo Martinelli (l’immagine in apertura dell’articolo è il fotogramma di una sequenza del film) scorrono sullo schermo inesorabili. La loro lettura avviene in una condizione di sgomento e impotenza, in cui non trova spazio l’impassibilità.

Oggi si commemora la strage del Vajont; i mass media attraverso immagini e video storici ci hanno dato un’espressiva e concreta visione del disastro che sommerse e spazzò via luoghi, paesi e vite. Tra le tante persone che prestarono aiuto e soccorso ritroviamo anche alcuni nostri compaesani di Lugagnano: Giuseppe Moscardo, Aldo Mazzi e Gian Carlo Pasquetto. Ebbero tuttavia compiti diversi. Aldo e Gian Carlo ci hanno raccontato la loro esperienza sul campo.

Prima del 9 ottobre 1963 avevate mai sentito parlare della diga del Vajont?

Aldo: Io non ne avevo mai sentito parlare. Ma stando ad altri racconti e testimonianze emerge che qualcuno già sapesse del pericolo della diga. Dopo la tragedia iniziavano a saltar fuori e diffondersi dettagli sempre smentiti o sottovalutati, come la lunga crepa che si formò sulla cresta del monte Toc. Si raccontava anche di una giornalista de “L’Unità” che fu smentita diverse volte per le verità che scriveva sul giornale.

Gian Carlo: Non mi era giunta alcuna notizia. Solamente dopo la strage riuscivamo a ricomporre tutte le notizie che ci arrivavano in modo frenetico e confuso.

Eravate militari nel ’63?

Aldo: Nel luglio 1963, quando avevo vent’anni, mi sono arruolato militare al CAR nella caserme di Cune e verso fine settembre sono stato destinato alla compagnia Genio Pionieri di Belluno. L’11 ottobre ci hanno comunicato il disastro del Vajont, luogo che raggiungemmo quattro giorni dopo.

Gian Carlo: All’inizio del ’63 divenni militare. Passai 3 mesi al CAR a Montorio, poi 4 mesi a Cecchignola, a Roma. Facevo parte della compagnia Genio Pionieri.

Alpini sul luogo della tragedia del Vajont. Aldo Mazzi di Lugagnano è il primo in alto a destra

Come Le è stata comunicata la tragedia? E quali furono le reazioni?

Aldo: La terribile notizia ci fu comunicata dai superiori la mattina dopo. All’inizio le notizie erano vaghe e frammentate, ma poi iniziarono a farsi più chiare e giorno dopo giorno comprendevamo sempre meglio la gravità dell’evento.

Gian Carlo: Verso mezzanotte fummo svegliati dalla sirena di allarme. Dopo circa due ore di viaggio arrivammo nei pressi di Longarone. La sorpresa di una strage del genere fu immensa, nessuno se lo aspettava.

Che compito vi fu affidato al vostro arrivo?

Aldo: Con il cerca-mine avevamo il compito di trovare una cassaforte del comune del Piave, pensa ti!

Gian Carlo: Dovevamo rimanere compatti e prestare soccorso. Dovevamo inoltre raccogliere i morti e metterli in dei sacchi finché non sarebbero arrivate le bare. Spesso, per non provare ulteriore dolore tra di noi e quelli che ci stavano vicino, scambiavamo il nome “cadavere” con “manichino”. Tutti i corpi che abbiamo raccolto non erano infatti minimamente riconoscibili.

Durante le vostre ricerche che clima c’era?

Aldo: C’era tantissima gente che arrivava da ogni dove. Polizia, pompieri, alpini, volontari, tutti scavavano ovunque. Ma il mio gruppo operava soprattutto nelle retrovie, all’inizio della vallata. C’era un via vai di innumerevoli camion che trasportavano bare da Longarone al cimitero di Fortonia. E mentre noi dalla mattina alla sera eravamo alla ricerca di questa cassaforte, trovavamo nel fiume mobili, carcasse di bestie, indumenti, giocattoli, di tutto, ma nessun cadavere. C’era un’atmosfera molto difficile, sebbene mi trovassi nelle “retrovie”.

Gian Carlo: I primi quattro giorni furono davvero i più difficili; non dimenticherò mai il silenzio che c’era fra di noi, un silenzio di rispetto per le vittime del posto. Dopo il quarto giorno ci fu un allarme di pericolo: sembrava infatti che ci potessero essere ulteriori frane. Abbiamo allora trascorso la notte al sicuro sulle alture del monte. Il giorno dopo, cessato l’allarme, abbiamo continuato con il soccorso.

Come si evolvevano nel tempo le dinamiche all’interno della diga?

Aldo: All’inizio c’era un’enorme quantità di persone che scavava, anche quasi con le mani. Poi arrivarono anche le ruspe che con molta cautela aprirono un passaggio centrale per poter garantire il transito a macchine e camion.

Gian Carlo: Dopo qualche giorno montarono un tendone enorme al centro della vallata. In questo tendone venivano portati i “manichini”: con una pompa d’acqua infatti li lavavano per poi riconoscerli. Fatto questo, li mettevano in dei sacchi e poi li portavano a Fortonia.

Per quanto tempo è durato il soccorso nel posto da parte della Sua compagnia?

Aldo: Siamo rimasti lì per più di un mese. Nel frattempo abbiamo ricevuto altri compiti, come quello di fare la guardia a vari depositi nella zona. Una notte avremmo dovuto andare anche a sorvegliare la diga stessa, ma poi l’ordine fu rimandato e affidato ad un’altra compagnia.

Gian Carlo: Noi siamo rimasti circa tre settimane. Dopo il soccorso dei primi giorni, abbiamo infatti costruito il ponte sul Piave in modo da permettere più facilmente il transito a macchine, camion e ruspe.

Gian Carlo Pasquetto con in mano l’Attestato di Benemerenza che gli fu consegnato per la sua opera al Vajont

Che meriti avete ricevuto in merito a quest’esperienza?

Aldo: Questa medaglia ci è stata consegnata a Belluno nella primavera del ’64 personalmente da Giulio Andreotti, allora Ministro della Difesa. È forse l’unico ricordo materiale che possiedo dopo quell’esperienza, ma ora l’apprezzo ancora di più rispetto a cinquant’anni fa.

Gian Carlo: Abbiamo ricevuto una medaglia e successivamente anche un attestato da parte di Andreotti. Attribuisco un grande valore a questi riconoscimenti, ma riceviamo tantissima riconoscenza dagli abitanti del posto quando ci rechiamo là in occasione della commemorazione della strage.

La strage del Vajont è solo un esempio di tanti mali compiuti dall’uomo: inefficienza, superficialità, presunzione. In nome del profitto (che in realtà veniva sbandierato come “progresso”) furono sacrificati sedici paesi e quasi duemila vite. Dicono che sbagliare è umano, dicono anche che sbagliando s’impara e che la storia aiuta a non ricommettere gli stessi errori. Ma l’uomo potrà mai fermarsi, fare un passo indietro, riconoscere i suoi limiti? Oppure, per avvertirli il meno possibile, è disposto ad accettare (di nuovo) qualsiasi prezzo?

Nato nel 1994 e residente a Lugagnano, scrive per il Baco dal 2013. Con l'impronta del liceo classico e due lauree in economia, ora lavora con numeri e bilanci presso una società di revisione. Nel (poco) tempo libero segue con passione la politica e la finanza e non manca al suo inderogabile appuntamento con i nuovi film al cinema (almeno) due volte a settimana. E' giornalista pubblicista iscritto all'ordine dei giornalisti del Veneto.