Cinquant’anni e sentirli. Con rimorso. Questo dovrebbe essere il sentimento dei lugagnanesi di oggi che, mezzo secolo fa, lasciarono demolire la chiesa ed il campanile in una quasi generale, sprezzante indifferenza. E invece, parlando coi più anziani, bisogna riscontrare che nemmeno il solco del tempo li ha staccati dalla pragmatica convinzione che la chiesa vecchia fosse ormai scomoda, ergo fosse logico liberarsene.
Era il 28 ottobre del 1968 quando la ruspa rase al suolo la vecchia parrocchiale. Ed il campanile venne fatto crollare pochi giorni dopo, il 6 novembre.
Possiamo cercare tante giustificazioni parziali, ma nessuna è del tutto convincente: non c’erano più necessità di culto; non c’erano esigenze di sicurezza, come vedremo; non c’era neppure così bisogno di soldi, come dimostreremo. C’era semmai un clima generale quasi di gioioso stordimento collettivo, di inebriante libertà, dove tutto sembrava possibile. E gli ebbri, si sa, non possono essere equilibrati e previdenti.
Gli anni Sessanta sono un periodo di euforia, economica e sociale. Tutto sembra lanciarsi verso il nuovo, il progresso sembra sempre migliore, per definizione. Frigoriferi, musica, automobili, stipendi, abitazioni, capelli più lunghi e gonne più corte, perfino sbarcare sulla luna è ormai una realtà. E quel materiale incredibile, così pratico e leggero che si sta diffondendo ovunque, come si chiama? Ah sì, plastica: che meraviglia, che comodità! Cambiare insomma è una parola d’ordine inconfutabile. Cambiare, cambiare, cambiare!
È senz’altro in questo contesto che bisogna calarsi, per cercare di capire la glaciale indifferenza con cui Lugagnano giusto cinquant’anni fa ha abbandonato la sua chiesa ed il suo campanile. I nostri compaesani di allora erano riusciti ad edificare una nuova, imponente parrocchiale: addirittura la più grande della provincia, fuori dalle mura cittadine.
Era stata inaugurata il primo maggio 1955, dopo soltanto sette anni di sforzo corale dalla posa della prima pietra, sotto l’incalzante guida dell’infaticabile don Enrico Brunelli. Nessuna esigenza di culto, dunque: il paese stava crescendo velocemente, a metà degli Anni Sessanta aveva superato il traguardo dei tremila abitanti, certo, ma ormai la ressa nel vecchio edificio, durante le celebrazioni, con gente stipata fino in sacristia era un problema risolto. Alla grande, letteralmente: anche senza pensare ad una futura disaffezione alla Messa, hai voglia a riempirla tutta, quella enorme nuova chiesa…
Nemmeno gli ingenti debiti che il paese si era accollato per quell’opera, che sembrava folle, per le magre risorse della comunità, possono essere portati a giustificazione totale: è lo stesso don Enrico, nel Memoriale Parrocchiale, in data 22 luglio 1963, ad annotare che il ricavato della alienazione della chiesa di S.Anna non sarebbe stato destinato a ridurre quel debito: “non tutti i fedeli erano entusiasti per la vendita dell’edificio, ma l’assoluta necessità di ricavare i fondi per iniziare almeno la costruzione della Casa del Bambino o Scuola Materna ha fatto prevalere la ragione sul sentimento e l’affare venne concluso per £ 9.500.000”.
Il suo contributo, la vecchia chiesa comunque aveva iniziato a darlo appena aperta al culto quella nuova: qualche cosa che può tornare utile nella ancor spoglia vastità della parrocchiale di Cristo Re si salva, il resto viene venduto pezzo a pezzo, per la fortuna di antiquari o semplici appassionati lungimiranti che, in quegli anni svagati, già capiscono la differenza di valore tra vecchio ed antico.

Un piccolo esempio lo fornisce la sparizione delle pregiate statue del presepe, fra le quali spiccava un raro gruppo della Sacra Famiglia in fuga verso l’Egitto, che sarà oggetto di incessanti ma purtroppo vane ricerche da parte del compaesano Beniamino Bendinelli, insigne presepiante con agganci ovunque. D’altronde, se in quei decenni (e oltre) si disperdono le suppellettili sacre, figurarsi cosa ha cancellato la furia del nuovo fra le suppellettili comuni: era del tutto normale, per dire, il passaggio di ambulanti che battevano con profitto le nostre campagne, proponendo lo scambio tra un bel tavolo nuovo, col ripiano in formica e le gambe di acciaio (così pratico da pulire!) ritirando quei vecchi, pesanti tavoli di noce massiccio o di ciliegio, presenti nei casolari da chissà quante generazioni…
Fra le parti riciclate della vecchia chiesa, la più rilevante è senz’altro il corpo dell’altare maggiore, trasformato in altare della Madonna. Come il nostro bel campanile, era stato disegnato sul finire del Settecento dal valente architetto veronese Luigi Trezza (autore di diverse chiese anche a Roma e Napoli) ed i progetti originari sono conservati nell’archivio storico della Biblioteca Civica di Verona.
L’altare dunque possiamo ancora vederlo, seppure modificato: si completava infatti con un tabernacolo ornato della statua di Cristo Risorto, che finirà in soffitta fino al 1984, quando il curato don Eros Zardini ne promuoverà il recupero nella Cappellina invernale. Gli altri altari, per la cronaca e per chi, passando, volesse dare un’occhiata, finiscono invece nella chiesa di Peri.
Anche i quadri della via crucis, acquistati dal parroco don Fracasso ancora attorno alla metà dell’Ottocento, e le pale dei vari altari vengono trasferite nel nuovo tempio.
Purtroppo, il 26 dicembre 1991 i dipinti dei Quattro Evangelisti e la grande tela raffigurante l’assunzione delle Vergine con S. Anna finiranno poi rubati. Quest’ultima opera ornava fin dall’origine, quindi dall’inizio del Settecento, l’altare maggiore della prima chiesetta del paese. Sempre per la serie: a Lugagnano la roba vecchia o la si distrugge, o la si vende o la si ignora; custodire non è proprio nel nostro DNA.
A conferma che il problema dell’ammodernamento selvaggio fosse in verità piuttosto diffuso, Mons. Urbani, Arcivescovo di Verona, aveva diramato una circolare a tutte le parrocchie, esortandole alla prudenza nella “vendita di cose sacre di valore artistico”, ricordando “il valore agli occhi della pietà popolare di opere anche non insigni”. Aveva dunque imposto una preventiva richiesta alla Commissione Arte Sacra della Curia per consigli e autorizzazioni.
Peccato che a Lugagnano si sia già fatta piazza pulita. Infatti, non sono trascorsi nemmeno due anni dall’ultima officiatura nella vecchia chiesa quando, nel marzo del 1957, viene inviata una lettera a quella Commissione, con la richiesta di indicazioni “per realizzare il massimo prezzo possibile avendo avuto delle offerte per ciò che riguarda il frontespizio dell’organo, il parapetto della cantoria, la balaustra del presbiterio, ultime cose che restano da alienare nella vecchia chiesa”. Passano poi altri undici anni di oblio: il portone del tempio si riapre giusto una volta all’anno, per ospitare una pesca di beneficenza, in occasione della sentita Sagra di S. Rocco.
Occasioni in cui la povera nudità degli interni, a confronto con l’imponenza della nuova parrocchiale, diviene quasi una conferma dell’inutilità della vecchia chiesa. Seguono altri cinque anni di abbandono, che magari avevano convinto i pochi oppositori ed i molti indifferenti che comunque non si sarebbe mai arrivati al passo finale: sì, la chiesa ormai era un guscio vuoto, ma era ancora lì; si, c’era in progetto di venderla, ma era ancora lì; sì, era stato deciso di abbatterla nei prossimi mesi, ma era ancora lì… C’è da dire che allora non era come adesso, che per aprire una finestra ti chiedono tante di quelle carte da far distruggere un chilometro quadrato di foresta. Allora la demolizione venne regolarmente richiesta ed autorizzata.
I pochi mormorii dell’ultima ora, infatti, qualche preoccupazione al dominante partito del progresso dovettero averla causata. Cosi, sulla facciata della chiesa, tutta una serie di innocue crepe dell’intonaco vennero allargate a colpi di scalpello e tinte di nero all’interno, creando ad arte l’impressione di un imminente pericolo e la demolizione venne accelerata al massimo, “per motivi di urgenza”, come recita la richiesta inoltrata agli enti preposti. Non appena le statue esterne furono rimosse, per essere naturalmente vendute, tutto finì in un mucchio di macerie.
Qualche relitto del naufragio poté essere recuperato dalla famiglia Zardini, che gestiva la vicina osteria (oggi Bar Cin Cin), dove pranzavano gli operai incaricati dello sgombero del materiale. Il resto fu smaltito nello scavo delle fondamenta del pastificio Mazzi, in via Betlemme.
Così la Sovrintendenza alle Belle Arti, da mesi sollecitata dall’irriducibile compaesano Giovanni Innocenti, arrivò sì in ispezione a Lugagnano, ma giusto due giorni dopo l’abbattimento. Ritardo fatale e certo non dovuto solo ad uno sfortunato caso. Nessun pericolo di crollo, tanto meno imminente, lo si ripete, che potesse giustificare l’abbattimento di urgenza. Perché la chiesa di S. Anna, eretta ad inizio Ottocento ed ampliata da ultimo nel 1898, pur se lasciata senza alcuna manutenzione da quasi quindici anni, era rimasta – malinconica ma salda – al suo posto, sulla via principale, affiancata dalla piazzetta e sorvegliata dall’elegante campanile.
Il muto rimprovero della vecchia chiesa e del campanile, simboli del paese ed abbandonati per anni, per poi essere sbriciolati, non aveva dunque superato il rumore del primo traffico che gli anni del Benessere (o del Benavere?) iniziavano a diffondere sulla via principale.