La finale di Wembley, il tricolore di d’Annunzio e la passione dei sonesi per il pallone

Nel corso di quell’incredibile avventura politica, sociale e umana che fu l’impresa di Fiume e la Reggenza italiana del Carnaro, dal settembre del 1919 al dicembre del 1920, si registra anche un episodio che pochi conoscono. Nel pomeriggio del 7 febbraio 1920 si tiene, alla presenza del “Comandante” (come si faceva chiamare a Fiume) Gabriele d’Annunzio, una partita di pallone amichevole che entrerà nella storia del calcio italiano.

Da una parte i fiumani che indossano la divisa dell’Esperia: maglia e pantaloncini neri con stella verde. Dall’altra bersaglieri, arditi, aviatori, marinai hanno la divisa della Nazionale italiana, maglia azzurra e calzoni bianchi, ma – come racconta Giordano Bruno Guerri nel bellissimo “Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione” – con una vistosa novità: sul petto, invece del tradizionale scudo crociato dei Savoia, hanno uno scudetto rosso, bianco e verde (nella foto).

È la prima volta che in una competizione sportiva si ignorano gli stemmi e le insegne del re: è nata la moderna divisa della Nazionale. Nell’agosto 1924, sette mesi dopo l’annessione di Fiume all’Italia, la Federazione Italiana Giuoco Calcio stabilì che la squadra vincitrice del campionato portasse sulle maglie lo scudetto tricolore – lo scudetto di d’Annunzio, dunque – sia pure modificato con l’inserimento dello stemma sabaudo. Lo scudetto comparve allo stadio Marassi il 5 ottobre 1924, sulle maglie del Genoa.

Il vero trionfo calcistico del Vate, però, è datato 27 aprile 1947, quando la Nazionale giocò a Firenze contro la Svizzera, stravincendo la partita: le divise degli azzurri avevano sul petto esattamente lo scudetto tricolore creato a Fiume. E ce l’hanno ancora.

Oggi nel mitico stadio di Wembley andiamo a vivere una delle finali più iconiche della nostra straordinaria storia calcistica, con gli azzurri di Mister Mancini, con quel tricolore sul petto, che si vanno a giocare il titolo europeo contro i leoni d’Inghilterra.

E anche sul territorio sonese impazza l’organizzazione per vivere assieme (con attenzione, il virus circola ancora) questa partita davanti alla televisione con amici, parenti, vicini di casa e animali domestici. Perché anche a Sona il pallone lo abbiamo saldamente scritto nel DNA e ha segnato tanti momenti importanti della nostra storia e del nostro immaginario collettivo.

Chi ha qualche anno in più ricorda il mitico 4 a 3 di quella che è stata definita “la partita del secolo” disputata il 17 giugno 1970 davanti a 102mila spettatori allo stadio Azteca di Città del Messico tra le Nazionali di Italia e Germania Ovest (la Germania era ancora divisa in due e frau Merkel, che è nata nel 1954, aveva solo sedici anni). Una partita da leggenda, che in Italia seguimmo sugli schermi ancora in bianco e nero e che ci aprì le porte della finale. Dove ad aspettarci c’era, però, Sua Maestà Pelè.

Chi non è più giovanissimo, come chi scrive, ricorda come fosse ieri cos’era il Bernabeu (e cos’era l’Italia) in quel caldissimo 11 luglio 1982, con l’urlo infinito di Tardelli, quel friulano di ferro di Bearzot, la pipa gongolante di Pertini. E le strade dei nostri paesi (io ricordo Lugagnano, ma fu lo stesso anche a Sona, Palazzolo e San Giorgio in Salici) che dopo la partita si trasformarono in un’immensa festa collettiva.

Anche chi è invece più giovane ricorda lo stadio di Dortmund interamente blindato di bandiere giallorossonere il 4 luglio 2006, con l’urlo di Grosso e quel contropiede verticalissimo al 120’ (da Cannavaro a Totti a Gilardino a Del Piero, tutto d’un fiato) che ci portò al trionfo di Berlino. Nel Comune di Sona si narra ancora del misterioso, ma maestoso, passaggio in lungo la via principale di Lugagnano in quella notte di festa di un trattore con carretta al traino, carica fino all’inverosimile di tifosi (dai sette ai settantasette anni) con bandiere tricolori al vento e inno di Mameli urlato e storpiato in maniera imperdonabile. E pochi dimenticano, per dirne un’altra, che in quelle notti mondiali la baita degli Alpini di San Giorgio si trasformò in una vera curva da stadio.

Oggi domenica 11 luglio (data della finale mondiale di Madrid del 1982, se le ricorrenze hanno un senso) dopo i mesi durissimi del Covid, torniamo finalmente a vivere il bellissimo rito collettivo di una grande finale di calcio sotto il cielo buono di un’estate italiana.

Tradizione, storia, passione, comunità. Servirebbe proprio la penna sublime dell’immaginifico d’Annunzio per raccontare degnamente questo vero e proprio ritorno al futuro.

Nato nel 1969, risiede da sempre a Lugagnano. Sposato con Stefania, ha due figli. Molti gli anni di volontariato sul territorio e con AIBI. Nella primavera del 2000 è tra i fondatori del Baco, di cui è Direttore Responsabile. E' giornalista pubblicista iscritto all'Ordine dei Giornalisti del Veneto. Nel tempo libero suona (male) la batteria.