Goffredo Mameli, il cantore della prima e più autentica stagione risorgimentale, nacque nel 1827 a Genova, città repubblicana fieramente ostile al Regno di Sardegna. Il suo idolo fu il più illustre dei genovesi dell’epoca, quel Giuseppe Mazzini che Mameli avrebbe incontrato la prima volta alle Cinque giornate di Milano, nel 1848. All’epoca Mameli aveva ventun anni e pochi mesi dopo, il 6 luglio 1849, sarebbe morto nell’ultima battaglia di difesa della Repubblica Romana. Ventidue anni: così poco visse il ragazzo che nel 1847 aveva scritto l’inno d’Italia.
Questa vicenda mi torna alla mente in questi giorni nei quali anche a Sona riassaporiamo la ritrovata libertà personale, dopo più di due mesi di durissima quarantena segnata sia da fatiche personali e famigliari che dal drammatico stop del tessuto economico locale e dell’intera nazione.
Eppure, nei mesi dell’inverno tagliente del lockdown, avevamo tutti cantato questa stagione di ripartenza come quella del ritorno ad una ritrovata unità di intenti e di direzioni. Tutti assieme, spalla a spalla, verso obbiettivi condivisi, in uno sforzo collettivo che avrebbe dovuto ricalcare gli anni del secondo dopoguerra, quelli del miracolo italiano.
Tutti finalmente responsabili, nella consapevolezza che l’intero mondo è nel frattempo cambiato ed esige la capacità personale e collettiva di andare oltre la miopia di riconoscere come importante solo il piccolo problema che intralcia i nostri piedi, lavorando invece per risolvere assieme il problema complessivo che investe l’intero territorio di cui facciamo parte.
Quei “ce la faremo” e quei tricolori alle finestre ci avrebbero restituito, ne eravamo certi, un’idea di Patria più corale, nella quale ognuno partecipa con il proprio piccolo contributo personale, sapendo andare oltre il piccolo tornaconto personale. Un’idea di Patria che sarebbe piaciuta a quel ragazzo idealista che era Mameli. Magari con anche un’accresciuta consapevolezza ecologista, come tutti ci eravamo detti.
Ed invece non è andata così. Già le prime due settimane di libertà ci ritornano un’immagine di noi, del Paese che siamo, che è uguale, se non peggiore, di quella che avevamo lasciato i primi di marzo, quando era iniziata la quarantena.
Incapacità di adeguarci alle regole, seppur minime, che tutelano la salute collettiva, come il semplice indossare una mascherina. Spregio generale per il territorio e per l’ambiente dove si vive, con quei guanti in plastica abbandonati ovunque e i resti delle varie movide locali che sfregiano anche le strade e alcune aree verdi del nostro territorio. Guerra senza quartiere di tutti contro tutti, alla ricerca dell’obbiettivo grande o piccolo, vicino o lontano, sul quale scaricare la colpa esclusiva dei nostri problemi. Il dilagare dell'”io” e del “mio” nella totale assenza del “noi” e del “nostro”. Questa la triste e desolante realtà che ha contraddistinto questi giorni di ripartenza.
Il tutto aggravato, esattamente un attimo dopo che è cessata la fase acuta della crisi sanitaria, da un inarrestabile ritorno all’incapacità di pensare in termini di quali siano le priorità per la collettività, ognuno rabbiosamente concentrato solo sul proprio piccolo fastidio personale, come ha spiegato uno sconsolato Sindaco Mazzi nell’intervista rilasciata ieri alla nostra Federica Valbusa su queste colonne.
D’altra parte viviamo in un Paese in cui non contano virtù personali e memoria. Un Paese nel quale il senso di comunità lo si pretende dagli altri ma non si è mai in grado di offrirlo. Lo sapevamo benissimo, l’abbiamo purtroppo riscoperto oggi.
Metafora di tutto questo, e qui torniamo al principio di questo ragionamento, è proprio il termine della vicenda terrena di Goffredo Mameli.
A lungo il suo resterà infatti un corpo clandestino, nessuno saprà dove sia. Imbalsamato, forse fu portato prima a Santa Maria in Monticelli e poi inumato semiclandestinamente nel sotterraneo della chiesa delle Stimmate. Quando i bersaglieri entreranno a Roma, nel 1870, come racconta Paolo Mieli, i morti dei giorni della Repubblica Romana verranno esclusi dal monumento in ricordo dei caduti del 1867 e dello stesso 1870. Si dovrà attendere il 1872 perché i resti di Mameli siano esumati e portati al cimitero del Verano. Una cerimonia mesta alla quale presenziano in pochi dove si canta l’inno e si pronuncia qualche discorso d’occasione.
Il 16 giugno 1876 la Camera dei deputati autorizzerà il governo a raccogliere al Gianicolo le ossa dei caduti per la difesa di Roma del 1849. Ma non quelle di Mameli che resteranno al Verano. Si dovrà attendere il 1941 – con l’Italia mussoliniana in guerra e poco attenta a questo genere di cerimonie – perché esse siano trasferite nel Mausoleo ossario garibaldino, nel sacrario dei caduti del 1849. Questo accade solo cinque anni prima che Fratelli d’Italia sia scelto come nostro inno nazionale.
Siamo rimasti quelli. Siamo ancora quelli. Purtroppo.