Il malefico stratagemma consisteva in questo. L’ignara vittima si vedeva recapitare a casa un pacco postale all’apparenza normalissimo. Presa dalla curiosità lo apriva. Non immaginava che, facendo scorrere lo sportello della scatola, avrebbe strofinato un fiammifero nascosto, le cui scintille avrebbero fatto saltare in aria il materiale esplosivo in essa contenuto.
Fra il 1922 e il 1931 furono spediti per posta a molti italiani involucri dinamitardi come questi, causando spesso danni anche gravi: vi fu chi perse una mano, chi un occhio. Le capacità investigative della polizia furono messe a dura prova, anzi a lungo brancolò nel buio.
All’inizio si pensò ad atti di terrorismo, poi tale ipotesi fu smentita dalla constatazione che venivano colpiti sia fascisti che antifascisti; in effetti non c’era un bersaglio preciso, sembrava che le vittime venissero scelte a caso. Gli attentati, inoltre, avvenivano in svariate città d’Italia, insomma un bel rompicapo.
Qualche innocente fu arrestato, ma poi rilasciato. Gli investigatori, tuttavia, non demorsero mai, e alla fine il cerchio si chiuse: si capì che si trattava non di una banda ma di una persona sola, proveniente dalla provincia di Verona: un certo Mario Silvio Merighi, di 36 anni, scapolo, ricco possidente di San Giorgio in Salici che viveva di rendita.

Quella mattina del 23 gennaio 1932 i poliziotti andarono a prelevarlo nella sua residenza di Borgo Trento, dove trovarono esplosivi e pacchi pronti per essere spediti. All’inizio il Merighi negò, poi, di fronte all’evidenza, crollò e confessò di essere il colpevole.
Dichiarò di averlo fatto per vendicare dei torti subiti dalla sua famiglia. Una giustificazione puerile, in realtà egli agì così per la dissennatezza di un nullafacente. Sottoposto a perizia psichiatrica, fu riconosciuto essere “un anormale psichico per costituzione, impotente e alcolizzato, pienamente cosciente dei propri atti ma di limitata capacità volitiva e quindi affetto da vizio parziale di mente”.
Egli spiegò che sceglieva le vittime a caso, da elenchi di nomi qualsiasi, oppure persone che gli stavano antipatiche, anche per futili motivi. Ad esse non aveva spedito solo pacchi esplosivi, ma spesso anche lettere anonime minatorie, piene di insulti, minacce e volgari insinuazioni.
Per depistare la polizia, girava di città in città, effettuando le spedizioni da posti sempre diversi. Negli ultimi tempi, tuttavia, si era impigrito, e limitato il raggio d’azione alla provincia di Verona, cosa che aveva fatto capire agli investigatori che il colpevole era veronese. Un giorno, all’ufficio postale di Sona fu riconosciuta la sua grafia su una lettera minatoria, e quella fu la zappa che si tirò sui piedi.
La Corte d’assise di Torino (città dove erano avvenuti gli ultimi attentati) il 31 gennaio 1933 lo condannò a venticinque anni di galera, “per tentato omicidio aggravato e continuato”. Tutta Italia tirò un sospiro di sollievo, ricevere un pacco postale a casa non costituiva più un incubo.
Che fine fece? Nel 1973 dei giornalisti del settimanale La Domenica del Corriere lo rintracciarono in una clinica di Brescia, all’età di 77 anni, solo, dimenticato da tutti.
Dichiarò che dei venticinque anni di carcere ne aveva scontato solo sedici, grazie a amnistie, condoni e buona condotta.
Addirittura, durante la guerra, i soldati tedeschi aprirono la prigione di Volterra dove era detenuto, e fuggì in Germania; dopo un anno, però, tornò in Italia e si costituì spontaneamente per concludere la pena. Dopo di che divenne finalmente un uomo libero. Libero ma povero, perché il suo ingente patrimonio era stato sequestrato per risarcire le numerose vittime.