Facciamo capire ai ragazzi che vale la pena fare fatica per istruirsi e per capire. Altro che grembiulini o regionalizzazione della scuola

Qualche giorno fa sono stati pubblicati da tutti i principali quotidiani nazionali i risultati delle Prove Invalsi 2019, a cui sono stati sottoposti in italiano, matematica e inglese gli studenti di terza media di tutta Italia.

Le cose non vanno benissimo da anni in matematica e in inglese, anche se alle superiori si stanno rilevando lenti miglioramenti, eppure l’informazione che colpisce (e ferisce) di più anche a Sona è sicuramente quel 35% di ragazzi che, alla fine della Secondaria di I grado, non è in grado di comprendere un testo scritto. Inoltre, queste difficoltà appaiono più marcate al Sud fin dalla Primaria,  dove il divario rispetto al Nord aumenta con l’avanzare dell’età degli studenti.

Le cause risultano molteplici e probabilmente non sono riconducibili ad un unico fattore. Sicuramente gli scarsi investimenti nella scuola da parte della politica italiana e alcune riforme sbagliate sono colpe che pesano sul sistema scolastico. L’Italia è tra i Paesi fanalino di coda per quanto riguarda le spese per l’istruzione e altrettanto lo è per quanto concerne lo stipendio e la formazione degli insegnanti.

I test Invalsi non sono la verità assoluta, ma appare innegabile che moltissimi sono gli analfabeti funzionali. “Per gli studenti le prove Invalsi sono una rilevazione e non una valutazione, e così deve essere e deve restare – commenta su La Repubblica Mariapia Veladiano, preside e scrittrice – ma per il sistema scolastico nazionale rappresentano una vera valutazione della validità del proprio lavoro e i risultati restituiti, di anno in anno sempre più precisi, possono orientare le decisioni politiche sulla scuola,e subito, perché i miglioramenti nel campo degli apprendimenti chiedono tempo e quel che conta è invertire le tendenze negative, sia pur di poco, partendo dai dati più importanti.”

Ebbene, le rilevazioni Invalsi ci dicono che i ragazzi hanno un problema con la lingua italiana e faticano sempre di più nella comprensione del testo. Per capire un testo scritto, bisogna essere capaci di leggere e di fare inferenze. Se ci si dedica poco alla lettura, si arriverà a decodificare soltanto testi molto semplici e basilari. Questo è un problema gravissimo perché, se la competenza linguistica è scarsa, ciò si ripercuote su tutte le altre discipline in maniera trasversale. Se una parte consistente dei giovani di oggi non capisce ciò che legge, come potrà crescere libera, esercitare i suoi diritti e difendere la democrazia?

Gli italiani leggono pochissimo rispetto agli abitanti degli altri Paesi europei e l’abitudine alla lettura andrebbe sviluppata prima possibile, addirittura in età prescolare. Bisognerebbe leggere a voce alta ai bambini fin da piccolissimi, far maneggiare loro i libri, portarli nelle biblioteche e nelle sale lettura. Chi dovrebbe farlo? Innanzitutto i genitori. Se un bambino non ha l’abitudine di leggere un libro probabilmente è perché non vede nessuno farlo, se non saltuariamente, in casa  sua. E’ molto più facile tenere in mano un joystick o guardare la tv.

Leggere è uno sforzo, un’attività non naturale che implica concentrazione e lentezza, a cui molti non sono stati educati. Ciò lo si nota anche solo osservando il comportamento di chi interagisce sui social commentando le notizie. Tanti non aprono nemmeno gli articoli ma leggono solo il titolo o al massimo poche righe per poi prontamente commentare, sentenziando. Un fenomeno che osserviamo quotidianamente anche per quanta riguarda gli articoli del Baco. Questo dimostra la superficialità dell’approccio alla parola scritta, il bisogno di soddisfare il più velocemente possibile la propria curiosità, la scarsa voglia di analizzare e l’urgenza di giudicare.

Del resto, chi è ignorante crede di sapere sempre tutto eppure essere ignoranti oggi è una scelta, anche piuttosto comoda. La scuola infatti non è l’unico luogo dove ci si può acculturare. Possediamo pc e smartphone di ultima generazione dove poter trovare informazioni di qualunque tipo, abbiamo molte più possibilità di esplorare il mondo rispetto ai nostri antenati, anche solo virtualmente, ma è evidentemente più semplice scaricare tutta la colpa sugli insegnanti italiani, sulle aule scolastiche senza computer e sulle nuove generazioni senza valori. Alzarsi dal divano, spegnere il programma demenziale o togliere dalle mani del proprio figlio il videogioco è faticoso ma è uno sforzo che bisogna fare. Molti studenti arrivano alle scuole superiori senza essere mai entrati all’interno dell’Arena di Verona o di Castelvecchio, senza neanche sapere chi sono gli Scaligeri. Eppure visitare la propria città e scoprire la sua storia,a che è anche la nostra, alzando gli occhi dallo schermo del cellulare, è possibile. E’ addirittura fattibile ignorare il centro commerciale ed entrare quasi gratuitamente la prima domenica del mese nei principali musei e siti d’interesse storico e culturale di Verona.

Insomma, le colpe vanno ripartite. Forse alcune metodologie e  le programmazioni andrebbero riviste. Senza dubbio i docenti devono lavorare con impegno e passione, ma anche avere il tempo e il modo di aggiornarsi e fare didattica tranquillamente, con le condizioni giuste, negli spazi appropriati e svolgendo programmi in tempi umanamente accettabili. Perchè, di certo, avere trentadue alunni in classe non è come averne venti; lavorare in spazi angusti e senza mezzi non è come poterlo fare in stanza ampie e luminose dotate di Lim. Chi insegna dovrebbe poter dare una insufficienza senza temere di ricevere insulti durante il colloquio coi genitori.

La scuola è comunità educante ma non può farsi carico di processi educativi che competono innanzitutto alla famiglia, ai genitori. Gli insegnanti devono sentire le famiglie dalla loro parte, perché il loro lavoro è nullo se non c’è fiducia e supporto reciproco. Andare a scuola significa impegnarsi, dedicare tempo allo studio, sopportare anche le sconfitte, ogni tanto. Ma se un alunno arriva in età scolastica avendo ottenuto tutto senza fatica, senza provare desiderio, senza mai essere stato davvero rimproverato per un errore, senza aver mai fatto i conti con la frustrazione, senza aver capito che andare a lezione è un suo dovere e non un passatempo, troverà la scuola un luogo noioso, invivibile e pieno d’ostacoli.

Perché studiare la grammatica e decodificare un testo non è facile, anzi. Studiare le regole della nostra meravigliosa lingua madre non è un gioco e non è nemmeno divertente. Nemmeno salire il sentiero che porta in cima ad una montagna lo è. Solo quando arrivi, ne scopri tutta la bellezza e provi soddisfazione, ma sul sentiero, nonostante gli scarponi giusti e dei bravi compagni di cordata,sudi, fatichi e ti sembra di non arrivare mai. Eppure non hai smesso di provarci perché sai che ne vale la pena. Ecco, i ragazzi devono crescere consapevoli che vale la pena fare lo sforzo di istruirsi, di uscire dall’ignoranza e imparare ad apprezzare la bellezza. Innanzitutto per la propria crescita interiore, poi anche per trovare un lavoro.

Dobbiamo migliorare assolutamente, Invalsi o non Invalsi. I ragazzi hanno bisogno di genitori ed insegnanti che si mettano in gioco e che li stimolino culturalmente, siano rigorosi e pretendano serietà,  sorretti da uno Stato che investe in qualità scolastica e non umilia chi ha studiato chiamandolo “professorone”, creando un futuro dignitoso per chi è bravo e capace,  in modo da non farlo fuggire all’estero dopo la laurea, gratificandolo anche economicamente.

Dobbiamo sentirci responsabili, tutti, della nostra ignoranza, perché il rischio è quello di un Paese arretrato, chiuso, facilmente manipolabile e per cui non c’è futuro. La regionalizzazione della scuola non risolverà il problema e nemmeno la reintroduzione dei grembiulini.

Nata a Verona nel 1977, si è diplomata al liceo classico e ha conseguito la laurea in Lettere presso l'Università di Verona. Sposata, con due figli, insegna Lettere presso il Liceo Medi di Villafranca. Lettrice appassionata, coordina il Gruppo Lettura della Biblioteca di Sona.