Don Francesco Peretti era di S. Anna D’Alfaedo, dove nacque il 12.05.1878. Rimase sempre legato al paese natio, tant’è vero che da Sona si recava ogni tanto a trovare i parenti, facendo tutta la strada a piedi, seguendo sentieri a lui noti. Ordinato sacerdote il 15.08.1903, fu mandato a “farsi le ossa” come curato a Ronco all’Adige. Promosso parroco, fece il suo ingresso a Sona nel maggio 1913, accompagnato dal sindaco cav. Vittorio Merighi, ricevendo dalla popolazione una calorosa accoglienza. Prese il posto di don Luigi Albertini, inviato a Caprino.
Nei tanti anni di apostolato a Sona, segnati da due grandi tragedie come le guerre mondiali, don Peretti riuscì a stabilire con i suoi parrocchiani un ottimo rapporto umano, divenendo per tutti un punto di riferimento religioso, civile e culturale di primaria importanza. Se in una famiglia scoppiava una lite, si ricorreva a don Francesco perché intervenisse a mettere pace. Gli analfabeti si rivolgevano a lui per farsi leggere le lettere postali.
L’affetto dei sonesi per don Francesco è testimoniato anche dalla loro partecipazione nel 1928 ai festeggiamenti per il venticinquesimo anno di sacerdozio, con tanto di fuochi d’artificio; anche per la ricorrenza delle “nozze d’argento” nel 1938 partecipò molta gente, nonostante il maltempo di quella giornata. Quando non era impegnato nelle pratiche religiose trascorreva la vita domestica in canonica, in dignitosa povertà, assistito dalla perpetua Giacinta. D’inverno si avvolgeva nel pesante tabarro nero, perché abitualmente non disponeva di molto fuoco nel caminetto; a quel tempo, infatti, la legna da ardere era un bene prezioso, autentica salvezza per le famiglie contro i rigori della brutta stagione, pertanto poche avevano così tanti ceppi da regalarne anche al parroco. Altre volte riceveva qualche dono, solitamente consistente in frutta o verdura, dai contadini che, nei periodi più impegnativi del raccolto, andavano a chiedergli il permesso di lavorare anche di domenica, giorno che avrebbe dovuto essere dedicato esclusivamente al Signore. Anche quando si ammazzava il maiale tutti si ricordavano di portare un pezzetto di carne al prete.
Uno dei suoi pochi passatempi consisteva nell’assistere alle prove della banda musicale, che si riuniva nel teatrino fatto costruire proprio da lui, assieme a quelli che oggi vengono definiti “casotini” (che all’epoca ospitarono attività lavorative per le ragazze del paese). Ovviamente in teatro si tenevano anche rappresentazioni amatoriali, sotto la regìa di suor Serafina, grande figura di maestra elementare e educatrice ricordata ancor oggi con affetto dai nostri anziani. La passione di don Peretti per la musica è dimostrata anche dall’acquisto dell’organo per la chiesa, nel 1949.
Come si può immaginare il lavoro per l’arciprete era molto, per fortuna veniva sempre qualche curato a coadiuvarlo, in un’epoca in cui le vocazioni non mancavano; fra essi citiamo don Domenico Mercante (poi parroco di Giazza e vittima della violenza nazista) e don Guerrino Chiavelli, futuro monsignore alla guida per tanti anni della parrocchia di Bussolengo, scomparso qualche anno fa. Politicamente don Peretti era tollerante: se incontrava per strada un parrocchiano che sapeva essere di sinistra lo salutava ironicamente con un “ciao, comunista!”
Tuttavia, quando si trattava di difendere la morale, ecco allora al bonario parroco di campagna subentrare l’intransigente difensore dei casti costumi. Per molti anni l’interno della chiesa fu diviso da un grande telo, per evitare l’incrociarsi di sguardi fra maschi e femmine. Le gite erano solo per uomini o solo per donne. Quest’ultime dovevano presentarsi a messa col velo in testa e le braccia coperte fino ai polsi, si può ben immaginare con che fastidio nei mesi caldi (con astuzia femminile il problema veniva risolto con l’uso di maniche lunghe posticce, da togliere fuori dalla chiesa). Le rappresentazioni teatrali prevedevano dapprima un dramma recitato dalle ragazze, poi una farsa finale interpretata dai ragazzi, senza alcuna possibilità di promiscuità. Ma era soprattutto contro il ballo che si scatenava la veemente repressione di don Peretti.
I giovani di allora, che pure erano per la maggior parte devoti e ligi alle direttive della Chiesa, quando si trattava della danza trasgredivano volentieri. Si riunivano di nascosto nella casa di qualcuno dì loro (in pratica qualcosa di simile all’odierna febbre del sabato sera, ma le discoteche erano di là da venire), e al suono di un grammofono o di un’improvvisata orchestrina di chitarristi e mandolinisti saltellavano seguendo i ritmi di moda, che richiedevano il contatto fisico fra i ballerini; era necessario che qualcuno stesse di guardia, perché don Peretti avrebbe potuto sopraggiungere all’improvviso e guastare la festa. La “soffiata”, ossia l’informazione che in quel posto si stava ballando, poteva essere compiuta da qualche pia persona preoccupata della morale pubblica, o più semplicemente da qualche giovanotto che, roso dalla gelosia perché un rivale gli aveva sottratto la ragazza, per vendetta andava a spifferare tutto al parroco. Questi allora irrompeva con furia degna di un Savonarola sul luogo incriminato, scatenando un fuggi-fuggi generale. Sequestrava la puntina del grammofono così da renderlo inutilizzabile, e rincorreva i giovanotti in fuga disperdendone le tracce e salvandone le anime; almeno per il momento, perché i “butèi” tornavano poco tempo dopo a riunirsi in un’altra casa, badando questa volta a essere più guardinghi.
Una volta egli venne a sapere che delle ragazze di Sona si incontravano con dei militari dell’esercito. Indossò allora la divisa di capitano degli alpini che usava ai tempi in cui era stato cappellano e, così travestito, capitò nel luogo del convegno; i giovanotti, identificato a fatica quell’ufficiale, si diedero alla fuga. Rigore forse eccessivo, ma che gli anziani oggi ricordano con un sorriso sulle labbra; sanno che il burbero comportamento di don Francesco, del resto comune a tutti i sacerdoti dell’epoca, era dettato dallo zelo con cui compiva la sua missione pastorale, dal trasporto con cui vegliava sul benessere della sua grande famiglia, la parrocchia (la lapide che lo ricorda nella chiesetta del cimitero parla di “acerrima lotta con l’errore” e “vigilanza gelosa del suo gregge”). In fondo, un prete distratto o disimpegnato oggi non lo ricorderebbe nessuno; invece, quando egli morì il 12 dicembre 1953, dopo ben quarant’anni di sacerdozio a Sona, lasciò nella memoria e nel cuore di tutti una traccia indelebile.
Unica “ombra” sul suo operato fu la sfortunata vicenda della Cassa Rurale. Nate verso la metà dell’ ‘800 in Germania ed introdotte in Italia per la prima volta nel padovano nel 1883, queste istituzioni bancarie acquisirono, con i primi anni del novecento, una netta connotazione cattolica. La Cassa Rurale nacque per far sì che la popolazione del luogo, allora in massima parte composta da contadini, braccianti, piccoli artigiani, potesse giovarsi del servizio di una banca locale che non avesse come fine principale il puro e semplice guadagno, quanto piuttosto l’elevazione morale e materiale dei soci e quindi della stessa comunità locale. Per i parroci di campagna si trattava di un’opera ambiziosa: la creazione di una banca fatta su misura per i loro parrocchiani, consistente in una associazione che si proponeva l’elevamento morale, economico e sociale dei suoi membri, facilitando e promovendo, mediante il retto uso del credito, le loro iniziative individuali ed associate e funzionando da centro organico della vita civile nel proprio comune; era un sistema, tra l’altro, per salvaguardare i lavoratori dall’usura. Benché malviste dal regime (il fascismo vedeva le “banchine dei preti” come possibili focolai di aggregazione e, in ultima analisi, di opposizione), queste banche cooperative ebbero largo seguito nel Veneto. Non c’è da stupirsi che anche a Sona si sia pensato di lanciarsi in questo tipo di impegno sociale. Purtroppo l’iniziativa andò male, e alcuni sonesi videro svanire i loro risparmi. Non sappiamo in che misura il parroco, che in quanto tale ricopriva un ruolo di primo piano nella Cassa Rurale, sia stato responsabile del dissesto: si tratta di una vicenda oscura, di cui ci è giunta soltanto un’eco lontana, legata al primo periodo di attività nella parrocchia di Sona.