Don Felice Pindemonte, Parroco di Sona dal 1775 al 1805: una storia di maldicenze e calunnie

Ben trent’anni durò la guida della parrocchia di Sona da parte di don Felice Pindemonte, originario di Zevio dove nacque nel 1735, figlio di un medico. Il suo apostolato, tuttavia, fu funestato da fatti incresciosi che meritano di essere riportati per la loro gravità.

Nel capoluogo esisteva una congregazione religiosa di laici, detta Compagnia di Santa Elisabetta, un gruppo di preghiera presieduto da un certo Giovanni Malenza, ricco possidente.

Questi pretese che la chiesetta del cimitero di Sona venisse assegnata alla congregazione, per farne la propria sede. Don Felice rispose che ciò non era possibile, in quanto quel tempio era di proprietà della Pieve di Sandrà.

Il Malenza, persona vendicativa, non perdonò al parroco quel rifiuto, e ordì un piano per farlo cacciare dal paese. Spalleggiato dal cognato Agostino Strapparava, anch’egli ricco possidente, e da altre persone che avevano in antipatia don Pindemonte, inviò al Vescovo di Verona una querela circostanziata, in cui si accusava il sacerdote di colpe infamanti, di cui citeremo le principali.

Anzitutto si insinuava che don Felice avesse avuto rapporti carnali con tre donne che, in tempi successivi, avevano svolto compiti di servizio nella canonica; addirittura, le avrebbe ingravidate tutt’e tre!

La seconda accusa era quella di giacobinismo, ossia l’aver dimostrato simpatia verso l’esercito napoleonico invasore, con discorsi inneggianti alla rivoluzione francese.

Infine, egli avrebbe fatto sparire gli oggetti d’argento che addobbavano gli altari della chiesa.

Il Vescovo, venuto a conoscenza di una simile scandalosa condotta, nel 1798 sospese subito don Pindemonte, che andò in esilio nella campagna di San Floriano, e fu sostituito da don Michele Marola come vicario parrocchiale.

Naturalmente gli si diede la possibilità di difendersi, infatti nel 1800 fu aperto un processo presso il Tribunale Ecclesiastico, i cui atti furono raccolti in un corposo volume, sulla cui lettura si basa il presente articolo (nella foto sopra).

L’avvocato difensore Silvio Fedele Fontana smontò, una per una, tutte le accuse, che si rivelarono essere nient’altro che vergognose menzogne. Iniziò con il dimostrare, portando prove inoppugnabili, che il comportamento del sacerdote verso le suddette donne fu sempre improntato alle massime onestà e correttezza.

Per quanto riguardava il presunto giacobinismo, ecco come andarono veramente le cose. Nel 1797 alcune truppe francesi, provenienti da Verona, vennero a Sona, nella cui piazza fecero piantare dai cittadini un “albero della libertà”, simbolo della rivoluzione (di solito un palo sormontato da un berretto frigio con bandiere e coccarde), e costrinsero il parroco a benedirlo e a tenere un discorso; don Felice, intimorito dalle guardie armate che gli stavano accanto, si limitò a  pronunciare poche parole di circostanza consistenti in vaghi complimenti al valore dei soldati napoleonici, nulla di più; anzi, quando il 28 gennaio 1798 furono le milizie austriache a entrare a Sona, egli cantò una messa solenne di ringraziamento.

Per quanto riguardava, infine, la sparizione dell’argenteria dalla chiesa, si trattò di una requisizione forzata effettuata dall’amministrazione francese, rapace e ladrona: tutti i parroci furono obbligati a consegnare gli oggetti d’argento degli altari, e don Felice dovette privarsi di 4 candelieri, una croce, una lampada, un turibolo con navicella e cucchiaio, una medaglia da gonfalone.

Il processo si concluse con la piena assoluzione del sacerdote, che fu subito reintegrato nelle sue funzioni di parroco di Sona. A convincere il giudice erano state anche alcune lettere inviate da molti capifamiglia del paese, che testimoniavano della retta condotta e dello zelo apostolico che don Felice aveva sempre dimostrato nei tanti anni in cui era vissuto in mezzo a loro; le missive recavano in calce le loro firme, o meglio le loro croci, in quanto quasi tutti erano analfabeti.

Fu pertanto intimato alle autorità municipali dell’epoca (il Massaro, il Sindaco e i Consiglieri comunali) di rispettare e far rispettare la reputazione del sacerdote, così turpemente infangata.

Alla fine, tutto bene, dunque? Don Antonio Pighi, studioso ottocentesco della parrocchia di Sona, su questa intricata vicenda ci informa che nel maggio 1805 don Felice Pindemonte rinunciò al suo incarico, e fuggì di soppiatto. Tempi bui, quelli che abbiamo raccontato, per la parrocchia di Sona!

Nato a Verona nel 1956, lavora come medico di base. Dal 2003 è redattore del “Baco da seta”, su cui pubblica articoli che trattano quasi sempre di storia del nostro Comune. E’ presidente del “Gruppo di ricerca per lo studio della storia locale di Sona”, che fa parte della Biblioteca comunale di Sona.