Don Alberto Benedetti (1911-1997, nella foto) nativo di Ceredo in Lessinia, fu un sacerdote originale e anticonformista.
La sua biografia è stata pubblicata nel 2001 da Alessandro Anderloni (Il prete dei castagnari, ed. La Grafica). Noi ne parliamo perché egli fu Curato a Sona dal 1937 al 1940.
Tra lui e il Parroco don Francesco Peretti non correva buon sangue. Non andavano d’accordo sul piano pastorale, ad esempio su come intendere l’Azione Cattolica. Discussioni anche per argomenti più futili, come la caccia, grande passione del giovane prete che fu categoricamente vietata dall’austero superiore.
Ma soprattutto don Alberto si rese protagonista a Sona di un episodio davvero eclatante, sospeso tra storia e leggenda, a cui il libro ha dedicato un intero capitolo.
Lo riproduciamo integralmente, per gentile concessione dell’autore e dell’editore.
“Quello che ha sparato a Mussolini.” “Chi, il prete che ha sparato al Duce?” “Ha processato Benito Mussolini e dopo gli ha sparato…” Del cosiddetto “Processo Mussolini” si è detto tanto, ma, di certo, si conosce ben poco. Non si è mai saputo di alcun testimone oculare di quello che, per molta gente – soprattutto per molti preti -, è l’aneddoto più eclatante della discussa vita di don Alberto Benedetti.
E così il prete di Ceredo, da chi lo conosce soltanto per fama, viene spesso identificato come “Quello che ha sparato a Mussolini”. Era a Sona, quindi deve essere accaduto fra il 1937 e il 1940. C’era Pia Peretti, in quel periodo, a fare da perpetua a zio don Francesco Peretti. E di quegli anni – e di quel curato montanaro – la donna ricordava un’infuocata omelia: “La pronunciò quando ci fu l’unione di Mussolini e Hitler. Don Alberto disse: ‘Cari fratelli, la croce l’abbiamo in testa, vedrete cosa succederà da questa unione. Verranno cose molto gravi, molto dolore. Bisognerebbe che io chiudessi la bocca , ma come faccio che ce l’ho sulla punta del cuore per tutta la gente che perirà?’. Mio zio prete prendeva don Alberto sotto braccio e faceva giri per il cortile per convincerlo a tacere. Gli diceva: ‘Tasi!’, e non voleva che predicasse certe cose in chiesa. Ma don Alberto l’era a fogo contro i fassisti!”.
Di quale unione si trattava? Non può essere la stipula dell’Asse Roma Berlino, avvenuta nel 1936 mentre don Alberto era ancora a Cavaion, e nemmeno il patto d’Acciaio del 1939, ché in quell’anno Pia Peretti non si trovava più a Sona. Forse l’omelia del giovane curato si riferiva semplicemente al progressivo avvicinamento far i due regimi. Ciò non toglie che un prete, in quegli anni difficili, seppe esporsi coraggiosamente in prima persona, quando molti altri suoi colleghi furono costretti – o semplicemente si rassegnarono – a tacere sui pericoli dell’involuzione nazistoide del regime dittatoriale italiano.
E tutto questo, che legame ha con il misterioso processo? Di quest’ultimo si fanno i racconti più fantasiosi, sempre per sentito dire, ché da don Alberto, sull’argomento, trapelavano poche parole, anche con gli amici. “E’ andata così: c’era un curato montanaro che, dopo la messa, ha detto a tutti i parrocchiani di fermarsi fuori di chiesa perché c’era da fare un processo. Lui andò in canonica e prese un quadro del Duce, lo portò in piazza e lo attaccò davanti alla porta della chiesa. Poi cominciò: ‘Benito Mussolini, noi ti accusiamo di questo e di quest’altro…’ e si voltava verso la gente, e chiedeva: ‘Voi, cosa avete da dire?’.’ E figuriamoci se la gente rispondeva! Nessuno aveva il coraggio di parlare e il prete diceva: ’Chi tace acconsente’. E così continuò, finché terminò dicendo: ‘Noi ti condanniamo per tradimento!’.
Prese il fucile da caccia e… pum! Non uno: due o tre colpi, al quadro di Mussolini! E la pubblica esecuzione era compiuta.” “No! Non è andata così! Io ho sentito dire che il colpo di fucile l’ha sparato dentro la canonica. Stava facendo catechismo e ha iniziato a parlare del Duce con i ragazzi e, alla fine, ha detto che il Duce era colpevole e così gli ha sparato.” “Io ho sentito invece che, siccome aveva sempre in mente la caccia, per allenarsi a tirare prendeva come bersaglio il ritratto di Mussolini.” “Macché! Stava solo pulendo il fucile e per sbaglio gli è partito un colpo.” “La verità è questa: lui era un po’ matto, aveva la sua testa dura e si divertiva a fare bravate con i giovani del paese. E così, tanto per ridere con loro, sparò al quadro del Duce.”
A quanti gli chiedevano del fantomatico processo, don Alberto rispondeva tagliando corto, infastidito. Altre volte ne parlava in modo ironico e allusivo. Al suo superiore di Ronconi, don Pietro Gottardi, che volle saperne di più, disse testualmente: “Stavo provando un fucile e mi è partito un colpo. Siccome c’erano i ritratti del Duce dappertutto, ne colpii uno!”. Si fa ironia. Ma nessuno, di Sona, o nei paesi vicini, ha assistito al fatto. Anzi: da quelle parti pochissimi ne hanno sentito parlare. Nemmeno la perpetua di allora! Se la cosa fosse così eclatante come la si racconta, poteva passare sotto silenzio? Se fosse vera avrebbe provocato enorme scalpore, e avrebbe lasciato una eco per molto tempo nell’aneddotica e nei racconti di un piccolo paese come Sona. E poi: perché sono soprattutto i sacerdoti, specialmente i più anziani ad averne sentito parlare? O ne parlano i sacerdoti, o la gente l’ha sentito raccontare dai sacerdoti.
Alcuni aggiungono addirittura che, dopo tale avvenimento, il vicario generale della Diocesi di Verona salvò don Alberto dalla vendetta dei fascisti; o ancora che il curato dovette rifugiarsi in curia da dove, calmatesi le acque, tornò definitivamente al suo paese. Racconti di curia e di canoniche di provincia.
Forse c’è da credere a quanto don Alberto confidò a don Luigi Adami che – a sua volta incuriosito – gli aveva chiesto se fosse vero che aveva sparato al Duce. Don Alberto gli rispose con tono amareggiato, quasi seccato: gli dispiaceva che anche l’amico avesse appreso questa diceria. Così gli assicurò che “la voce per cui lui avrebbe sparato a Mussolini, l’aveva messo in giro il parroco di Sona, don Peretti, per diffamarlo, perché non andavano d’accordo”. Una bravata giovanile che fu volutamente ingigantita e con il tempo si arricchì di particolari sempre più inverosimili. Per molti fu un modo per etichettare e liquidare don Alberto, facendolo passare per un uomo rivoluzionario e magari pericoloso. E in fondo avrebbe fatto comodo a qualcuno parlare dello strano sacerdote con ironia, accreditandolo di questo eclatante episodio.
Perché, invece, gli stessi preti che riferirono del processo, non raccontarono per niente delle coraggiose prese di posizione pubbliche del loro collega contro Hitler e contro Mussolini? Forse perché lui aveva avuto il coraggio di parlare e molti altri no?