Scrivere o non scrivere, innanzitutto. Ma poi, esprimersi in che modo? E rivelare in che misura?
Ad attraversare questi interrogativi, che caratterizzano da sempre la mia attività giornalistica, anche recentemente alla luce di alcune alzate di scudi della politica Sonese, sono (credo dignitosi) dubbi di carattere etico e deontologico (cosa è bene dire e cosa no? Quali parole descrivono e quali giudicano? Quale tono è giusto dare alla cronaca di un fatto, affinché restituisca la realtà in modo fedele e non fallace?), ma anche, va ammesso, (probabilmente vili) preoccupazioni di carattere emotivo (come reagirà nei miei confronti chi leggerà? Saprò sopportare una reazione negativa? Mi farò travolgere da un senso di colpa anestetizzante o saprò difendermi da un’eventuale offesa e andare avanti in coerenza con i miei principi?).
Mi capita di arrovellarmi su simili questioni, che mi trovano spesso rimuginante con la testa sul computer, in un tempo che scorre fra frasi modificate decine di volte e frasi cancellate… e poi riscritte, e poi ricancellate.
Così, quando mi imbatto nuovamente, a distanza di anni, nel canto XVII del Paradiso di Dante, sento che nelle parole del poeta fiorentino c’è qualcosa che parla anche di me e nelle parole dell’avo Cacciaguida c’è qualcosa che parla anche a me.
Succede con la grande letteratura: ci chiama a sé, rispecchiandoci le nostre ragioni e il nostro sentire. Come scrive Zambrano, “ogni opera umana si rivela sempre, com’è ovvio, uno specchio in cui gli uomini possono guardarsi”. E questo è tanto più vero per La Divina Commedia, che dell’umano esplora ogni dimensione.
A Cacciaguida Dante espone un dilemma che sembra pesare parecchio sulla sua anima: deve rivelare oppure no quello che ha visto nell’aldilà? Insomma, nel lungo viaggio che ha fatto è venuto a sapere cose che a tanti potrebbero non piacere.
Rivelando quel che ha visto, teme di attirarsi l’odio di molti suoi contemporanei, perché sa bene che per qualcuno sentire certe cose potrebbe avere lo sgradevole “sapor di forte agrume” (v. 117); tuttavia non rivelandolo, cioè mostrando di essere soltanto un “timido amico” del vero (v. 118), teme di essere dimenticato dai posteri.
Del resto – Dante non lo dice, ma possiamo forse attribuire pure a lui questa vanitosa fragilità umana – sarebbe un peccato che una gran fatica letteraria come quella della Commedia finisse dimenticata. Che fare dunque? La risposta dell’avo offre interessanti spunti di riflessione:
indi rispuose: «Coscienza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna (Par., XVII, vv. 124-129).
Un Cacciaguida che, togliendo un po’ di solennità ai versi danteschi ma guadagnando in concretezza e in attualità di linguaggio, potrebbe essere così parafrasato: mio caro Dante, è ovvio che coloro che hanno la coscienza offuscata per la vergogna avvertiranno come amare le tue parole; ma evita di raccontare menzogne (e, si può aggiungere, evita di omettere dettagli), e racconta pure, senza farti troppi problemi, tutto quello che hai visto. E, una volta che hai fatto quel che devi, “lascia pur grattar dov’è la rogna”. L’ultimo verso è talmente famoso e in sé esplicativo che non ha bisogno d’esser parafrasato.
Nella risposta dell’avo si legge tutta la sua benevolenza per Dante, ma presa così com’è – nella lettera del suo contenuto – suona piuttosto dura. Sembra infatti dire: tu scrivi quel che devi scrivere, e chi si sentirà amareggiato per questo si arrangi, del resto il problema è suo. Perché tanta durezza? E in Paradiso, per di più?
I versi che seguono ci danno la spiegazione che aspettavamo:
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta. (Par., XVII, vv. 130-132).
Insomma, Dante non deve farsi problemi a scrivere quel che vede perché, se in un primo momento quello che dirà potrà risultare disturbante, una volta assimilato farà del bene.
Anche in questo caso, la metafora è più espressiva di ogni spiegazione: quello che al primo assaggio risulterà molesto, una volta digerito diventerà nutrimento vitale. Leggendo mi torna alla mente quella frase di Oriana Fallaci – pure lei fiorentina, peraltro – che dice: “Scrivi sempre la verità. Assomiglia ai ferri chirurgici: fa male, ma guarisce”.
Cacciaguida dice a Dante che scrivere di quello che vede sarà per lui titolo di molta gloria e Sermonti, commentando questi versi, parla dell’“onore della franchezza”.
Gloria e onore nel giornalismo sono guadagnati sul campo da pochi professionisti, immensi per la loro vista e la loro penna. Nel mio piccolo mi accontenterei di parlare piuttosto del coraggio della verità. Perché la possibilità di essere “timidi amici del vero” è sempre dietro l’angolo, e una immediata quietezza emotiva (“se non dico troppo, nessuno si arrabbierà”) rischia di far dimenticare i guadagni a lungo termine – non per sé, ma per chi ascolta e ne trae nutrimento – del dire le cose come stanno.
Come Cacciaguida ben ci insegna.