“Così ho sconfitto il coronavirus”, il racconto di Paolo di Lugagnano. Tra ricovero, paura di morire e finalmente il ritorno a casa

Pubblichiamo la testimonianza forte di Paolo Doria, residente a Lugagnano, che racconta il suo calvario tra il contagio del coronavirus, il ricovero a Negrar, la paura di morire e finalmente il ritorno a casa. Con tante convinzioni nuove in testa.

Io sono uno dei residenti di Sona che ha contratto il Coronavirus. Lo dico subito: Dio solo sa come l’ho contratto, avendo sempre rispettato le disposizioni governative.

IL CONTAGIO. I primi sintomi del virus si sono manifestati per una settimana sotto le sembianze di una semplice influenza (febbre alta) per poi proseguire con papille gustative azzerate e quindi leggera mancanza di respiro. Il 12 marzo essendo allo stremo (due giorni senza alzarmi dal letto e senza mangiare), mia moglie chiama il 118 ed arriva l’ambulanza. Con nostra sorpresa non fecero il tampone: mi controllano i valori (febbre, pressione sanguigna, ecc) e le domande previste da protocollo cioè se avevo avuto contatti con “le zone rosse” o con persone positive. Essendo le risposte negative, i due infermieri sentenziarono che avevo solo una semplice influenza. Ma è grazie all’intervento di mia moglie che fortunatamente con insistenza e determinazione, sia con gli infermieri che l’operatrice del 118 che mi portano fortunatamente all’ospedale Don Calabria di Negrar, cioè in un centro ospedaliero considerato un’eccellenza italiana nel campo della ricerca e cura malattie infettive tropicali e virali.

IL RICOVERO Il viaggio in ambulanza non finiva mai in quanto in qualsiasi posizione mi sedessi, facevo grossa difficoltà a respirare. Arriviamo al pronto soccorso di Negrar ed anche qui sorpresa: pensavo mi ricoverassero subito, invece mi fanno entrare nella tenda esterna di attesa, mi fanno compilare un modulo e quindi mi fanno attendere sempre all’interno della tenda su una panchina in plastica dura, sulla quale mi sono immediatamente steso immobile poiché era ormai l’unica posizione in cui potevo respirare. Dopo circa 30 minuti, mi fanno entrare in pronto soccorso: mi applicano subito la mascherina dell’ossigeno, mi misurano i valori (febbre, pressione sanguigna, ecc) mi fanno il tampone (il cui responso arriverà dopo tre giorni), la emogasanalisi, la radiografia al torace quindi mi mettono in isolamento.

L’ISOLAMENTO. Trattasi di una stanza senza finestre, asettica, con il solo bip dei macchinari di controllo, steso su letto con materassino “tipo spiaggia” ed in più con il motore del condizionatore che faceva un costante brusio: ci resterò circa due giorni. Ogni infermiere e dottore virologo che entra (ovviamente bardati come avevo visto solo nei film dei RIS quando vanno a fare rilevamenti nel luogo del delitto) mi fanno sempre le stesse domane “Il suo nome è? Ha avuto contati in zone rosse? Ha avuto contatti con persone a rischio? Ha tosse forte?” il che non era edificante, mi sentivo un numero ma era un primo segnale di come l’emergenza avesse “travolto” l’organizzazione operativa dell’Ospedale.

UFFICIALE: E’ CORONAVIRUS! Ci siamo: nel tardo pomeriggio entra la dottoressa radiologa “mi spiace ma già con le radiografie le dico che lei ha il coronavirus: l’esito del tampone, quando arriverà, ne darà solo la conferma”. La prima reazione è stata di incredulità proprio perché mi sono sempre comportato in prevenzione del virus: è la dottoressa a sbagliarsi, sono solo quelli imprudenti o che vivono in zone rosse ad ammalarsi del virus. Ma ecco entrare la dottoressa virologa che con voce straziante mi dice “come sa per il virus non esiste cura o vaccino: mi deve dare autorizzazione ad utilizzare dei medicinali Off Label cioè medicine che sono già vendute sul mercato per altre patologie ma che assunte assieme sembrano e speriamo diano dei benefici”. Appena uscita la dottoressa presi coscienza della cruda realtà: ero in fin di vita.

Le tre pastiglie che Paolo assumeva ogni giorno in ospedale.

SCONFORTO. Iniziai a piangere: dalla rabbia perché non era giusto, mi ripetevo, mi sono sempre comportato bene, piansi perché avrei voluto salutare come dovuto mia moglie ed i miei figli, piansi perché mi era cresciuto (erroneamente) un senso di colpa nei confronti delle persone (famigliari, amici, colleghi di lavoro) che potevano aver contratto il virus perché venute a contatto con me. A quel punto la prima preoccupazione fu proprio per familiari e amici. Con un filo di voce e poche forze dovute anche ai quattro giorni senza cibo, posizionai il telefonino tra la spalla e il collo, ed in viva voce chiamai mia moglie per comunicarglielo ma rassicurandola che la situazione non era grave quindi di avvisare subito gli amici, in primis con quelli con i quali ero stato a contatto nel periodo del contagio. Stessa cosa feci con la mia azienda e con l’istruttore di Ginnastica Dinamica Militare in quanto altrettanto preoccupato per i colleghi d’ufficio e per i compagni di corso. Iniziano la sera stessa a darmi le famose medicine, 3 belle pastiglie, che avrei assunto giornalmente: quando me le consegnavano e fin prima di portarmele alla bocca, ogni volta le osservavo con lo stesso stato d’animo, fiducia e speranza che si ha quando a messa si ammira l’ostia alzata al cielo dal prete.

TRASFERIMENTO IN REPARTO MALATTIE INFETTIVE. Dopo circa due giorni di isolamento, mi portano in reparto malattie infettive: in realtà mi dicono essere il reparto geriatrico che è stato svuotato per avere più posti letto a disposizione visto la crescente necessità di ricoveri per infetti da virus. Già appena entrato in stanza ed adagiato sul letto, mi rendo conto che la fortuna iniziava ad assistermi: stanza bellissima, con arredamento nuovo, televisore, videocamera che ci controllava H24, letto ipertecnologico (telecomando per scegliere la posizione schiena, gambe, ecc) e soprattutto vicino a due finestre dalle quali poter vedere in lontananza il verde della Valpolicella. Il personale medico, paramedico, infermieri, addetti ai pasti e donna delle pulizie si dimostra fin da subito disponibile e presente per qualsiasi necessità ma soprattutto svolgendo il lavoro con professionalità e passione, offrendoci sostegno morale con incoraggiamenti anche con battute scherzose: dire eccezionali e straordinari è comunque riduttivo. Sempre a dimostrazione della situazione di emergenza, avevano convogliato nel mio reparto infermieri da altri reparti (oculistica, chirurga, ecc). Ma altra grande fortuna fu che a seguirmi era il dottor Andrea Angheben, dotato di competenze sulle malattie tropicali e virali (ho scoperto poi sul suo profilo internet essere ricercatore tanto da essere andato un anno nel Burundi), di passionalità ma anche di grande spessore umano: a lui ed a tutto lo staff devo la vita!

PRIMI GIORNI. Ero costantemente incollato alla mascherina dell’ossigeno come lo è un nascituro al cordone ombelicale ma quando i polmoni me lo permettevano, avendo le pareti danneggiate dal virus, riuscivo ad alzarmi per qualche minuto almeno per andare al bagno. Nei primi quattro giorni non avevo nemmeno le forze per utilizzare il telefonino: unici sforzi erano per una chiamata a mia moglie e al mio boss in azienda per aggiornarli e per avere rassicurazioni che nessuno dei miei amici e dei colleghi avessero contratto il virus per colpa mia.

Le prestigiose bottiglie di “vino” che Paolo consumava in ospedale con il compagno di stanza.

INIZIO DELLA GUARIGIONE. Arriviamo al sesto giorno e con il pragmatismo ed entusiasmo che caratterizzano le spiegazioni del dottor Angheben mi dice “Non posso dire che è fuori pericolo ma siamo sulla strada giusta”. A quel punto mi dissi “Bene, il dottore sta facendo la sua parte per guarirmi da sto cazzo di virus ma adesso devo metterci del mio!”. Iniziai quindi ad attaccarmi a qualsiasi stimolo che portasse alla guarigione: alla mattina mi radevo e lavavo con cura maniacale (come se avessi un appuntamento galante), pulizia dei denti per la quale la mia igienista dentale ne sarebbe stata orgogliosa, lettura, partecipavo ai gruppi WhatsApp dei miei amici come se fossimo al bar, telefonate costanti alla moglie, “esercizi ginnici”di ben 5 minuti (tipo movimento bicicletta da disteso sul letto o flessioni sulle braccia appoggiando in verticale vicino al muro), colazione-pranzo-cena mangiavo sempre tutto (ho stimato aver perso circa 9 kg) ma con il tavolino rivolto verso la finestra per vedere la Valpolicella, facendomi accompagnare dall’ascolto della musica dei Beatles (apprezzati anche dal mio compagno di stanza) e bevendo del buon vino nel senso che sulla bottiglia dell’acqua avevo applicato delle etichette di vino fatte a mano su fazzoletti di carta. Inizialmente infermieri e soprattutto il compagno di stanza mi guardavano come a dire “il virus gli ha preso la testa” per poi invece capirne lo scopo e diventarne complici, arrivando anche a lamentarmi ”mi spiace, il vino oggi sa un po’ da tappo”.

SOSTEGNO MORALE. In questa fase stimolo molto importante furono i messaggi da parte dei famigliari, colleghi, parenti e amici. Il loro affetto si esprimeva chi con la frase giusta, chi con una foto in posa di incoraggiamento, chi mi avrebbe ricordato nella sua preghiera quotidiana, chi regalandomi in anteprima un brano del suo prossimo album musicale, chi un suo videomessaggio. Insomma, dedicandomi quello che di più caro ed intimo avevano: eccezionali! A proposito del mio compagno di stanza, il sessantottenne G.N.: altra fortuna in quanto brava persona, di sani principi e valori, che ha dovuto subire le mie “bambinate” ma soprattutto importante perché è nata spontaneamente una forte solidarietà tale da incoraggiarci nei momenti (non pochi) di sconforto nei quali non intravedevamo la luce in fondo al tunnel, convinti che sarebbero stati i nostri ultimi giorni di vita.

MI DIMETTONO. Dal sesto giorno incredibilmente il miglioramento delle mie condizioni fisiche hanno avuto una tale accelerazione che sabato 21 mattina, cioè dopo solo 10 giorni dal mio arrivo (rispetto alle preventivate tre settimane) il dottor Angheben entra in stanza e sempre pragmaticamente mi dice “inizia a prepararti le tue cose perché oggi pomeriggio vai a casa”. Ovviamente la reazione fu di sorpresa (ero ancora risultato positivo al tampone del giorno prima), emozionato, felice perché tornavo a casa e che “il primo tempo” lo avevo vinto io, stavo sconfiggendo il virus! Chiamai subito mia moglie e avvisai tutti i parenti, colleghi e amici. Per contro gli storici amici gruppo di Lugagnano/Caselle sono arrivati ad organizzare la mattina stessa un videoaperitivo per un brindisi: eravamo circa 25, un gran casino ma divertente: straordinari come sempre! Prima di uscire dalla stanza, salutai il mio ormai ex-compagno con una ripromessa: finito tutto ci si vede per brindare con un vero calice di rosso Valpolicella! Lungo il corridoio incrociai tutti, dottor Angheben e suo staff di dottoresse, gli infermieri ed inservienti: avrei voluto abbracciarli e baciarli tutti (ma ovviamente non si poteva). Fortunatamente indossavo la mascherina per cui non si poteva vedere la mia commozione e lacrime mentre li salutavo, li ringraziavo di cuore, gli dicevo di tenere duro e non mollare perché il loro lavoro è troppo importante e fondamentale.

SI TORNA A CASA. Durante il viaggio in ambulanza verso casa non smettevo di guardare fuori dal: pur essendo una strada che avevo fatto centinaia di volte, avevo la stessa emozione e curiosità di un bambino di prima elementare che per la prima volta sale sullo scuolabus e scopre “il mondo”. Arriviamo a casa dove ovviamente era già pronto il comitato di accoglienza con i suoceri alla finestra e la famiglia: giusto così perché la discesa dall’ambulanza mi ricordava Amstrong quando fece il primo passo sulla luna (la velocità era la medesima, giuro). Entrare in casa fu un mix di emozioni agrodolci: “dolce” perché rivedevo la mia famiglia, mia moglie ed i miei figli, respiravo la mia casa con i suoi profumi fatti di amore, armonia, sentimenti e affetti ma “agro” perché non potevamo abbracciarci e baciarci e perché, dallo sguardo di mia moglie, capii subito quanto quanto aveva sofferto. Infatti non poteva venire a trovarmi in ospedale, attendeva la mia telefonata giornaliera (ma se non chiama ancora, sta bene oppure sta morendo?), il SISP- Servizio Igiene Sanitario aveva comunicato che da subito tutta la famiglia era quarantena-isolamento. In questa situazione ha dovuto gestire le necessità famigliari (come fare la spesa o andare in farmacia), lavorative e il ricovero di mio papà: insomma come da lei definita, sulla famiglia era caduto “un macigno”, macigno che grazie alla già citata determinazione e carattere, è riuscita a fermare gestendo e risolvendo il tutto alla grande, grazie anche all’aiuto delle amiche e al Servizio Assistenziale del nostro Comune.

HO VINTO. La prima sera a casa, finalmente per cena potevo gustarmi avidamente quanto avevo sognato durante il ricovero: una mega pasta alla carbonara accompagnata da birra fredda. A casa sono in “isolamento domiciliare fiduciario” essendo ancora positivo ed avendo i polmoni da curare che dalle disposizioni scritte nel certificato di dimissione si traducono in: dormire e vivere in una stanza singola, utilizzare in esclusiva uno dei bagni, igienizzare costantemente le mani, in presenza dei famigliari mantenere almeno 1,5 metro di distanza ed indossare sempre la mascherina, tranne in giardino dove posso togliermela. Adesso sto solo tecnicamente aspettando di effettuare due tamponi che, sentenzieranno la mia completa guarigione: ho vinto anche il secondo tempo, virus sconfitto!

COSA HA INSEGNATO. Inizierei nel dire che i ritmi di vita, sia lavorativa che personale, non devono far dimenticare l’importanza dei rapporti con i famigliari, i parenti e gli amici: avere cosi tante persone che ti amano e ti vogliono bene è un dono che va curato, mantenuto, vissuto e gustato fino in fondo, dedicandoci il tempo dovuto e necessario. Altro insegnamento, una società civile deve mettere il benessere dei propri componenti come elemento prioritario del proprio vivere, sia giovani che adulti che anziani. Nel racconto ho fatto richiamo molto spesso alla “fortuna”. Bene, non è degno di una società evoluta che la salvaguardia della nostra salute dipenda dalla buona volontà dei volontari, dalla professionalità e senso del dovere dei dottori, dalla dedizione e solidarietà degli infermieri, dalla buona volontà e passionalità degli inservienti/donne delle pulizie presso le strutture ospedaliere, dalla disponibilità o meno della responsabile comunale all’assistenza sociale: non è accettabile! In questi ultimi trent’anni invece abbiamo assistito ad un graduale taglio ai fondi per la sanità da parte dei vari governi che si sono succeduti (di centrosinistra, di centrodestra, coalizioni, governi tecnici) ed il coronavirus ha evidenziato come sia totalmente inadeguata e destrutturata non solo a livello nazionale ma anche europeo. Bisogna invece investire nella sanità e nel personale medico/paramedico/infermieri. Ho usato il termine investire, e non “spesa”: cioè mettere tale figure professionali nelle condizioni non solo di svolgere dignitosamente la propria professione ma anche per avere il tempo per fare corsi di aggiornamento, supportare le attività di ricerca, andare nelle scuole ad “insegnare” igiene, fare visita domiciliare agli anziani (spesso da soli) per controllare il loro stato di salute

CONCLUSIONE. Termino con una considerazione “a voce alta” che si basa sulla mia affermazione iniziale “Dio solo sa come l’ho contratto, avendo sempre rispettato le disposizioni governative e della mia azienda”. Tutti quelli che sono risultati positivi e ricoverati per coronavirus sono isolati, monitorati e curati. Anche quando negativizzati, per ciò che abbiamo vissuto ed hanno vissuto i nostri familiari, manteniamo alta l’attenzione nell’attuare maniacalmente tutti quei comportamenti igienici a prevenzione del contagio verso il prossimo: ergo, il coronavirus con noi muore, il contagio non si diffonde più! Noi contagiati e ricoverati siamo stati vittime di persone che ovviamente non sapevano di essere asintomatici. Ma ancor peggio siamo vittime degli arroganti che non si sono attenuti “infischiandosene” delle disposizioni governative magari con l’aggravante di formulare false autocertificazioni pur di circolare fuori casa. Il pericolo attuale e futuro della diffusione del coronavirus arriva soprattutto da queste persone superficiali ed arroganti: sono loro i veri impestati!

Trovate tutte le notizie aggiornate e verificate sulla situazione del coronavirus nel Comune di Sona nella sezione speciale del sito del Baco.

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