L’arrivo del Coronavirus in Italia, con l’aumento veloce e inaspettato dei contagi, ha creato reazioni di panico diffuso. E anche chi, contando sulle proprie conoscenze, sul proprio spirito critico e pure su una giusta dose di buon senso, riesce a mantenere i nervi saldi e a leggere i fatti con serena lucidità, non può non sentirsi travolto dalla percezione di essere nel bel mezzo di qualcosa di completamente disorientante.
La corsa alle mascherine e l’assalto ai supermercati, anche in zone come la nostra dove non c’è ancora alcun paziente positivo né alcun residente in quarantena, esprimono il bisogno da parte di molti di equipaggiarsi di una sicurezza preventiva, con cui fronteggiare un’incertezza che sembra incombere sempre più pesantemente, giorno dopo giorno.
Un’incertezza che aumenta in modo incessante al ritmo degli aggiornamenti online sul numero dei contagiati e sulle zone colpite, e che si esprime in quell’unica domanda su cui, da giorni, tutti i nostri pensieri si allineano: il Coronavirus arriverà anche qui? E tratteniamo il respiro quando, dopo una giornata passata a commentare ogni notizia sul virus che appare su internet, ascoltiamo il bollettino serale dei contagiati, per poi tirare un sospiro di sollievo quando, sfogliando il primo giornale del mattino, prendiamo atto che no, non c’è ancora nessun caso nel nostro territorio. “Per ora, almeno”, ci ripetiamo fra di noi con preoccupazione.
Possiamo contare su un sistema sanitario di eccellenza e su una ricerca scientifica d’avanguardia, ma non siamo emotivamente preparati a gestire la vulnerabilità con cui questa situazione ci costringe a fare i conti. L’umano delirio di onnipotenza, a cui questa società del tutto, veloce e subito, ci sta sempre più abituando, va di pari passo con la tacita inerzia di un vivere che spesso, dimenticando il suo inevitabile destino di finitezza, dà troppe cose per scontate.
Purtroppo, capita frequentemente che siano le situazioni più dolorose o più preoccupanti quelle che, nella vita privata, riconciliano l’anima con la propria costitutiva fragilità: è nelle ferite che squarciano l’esistenza che torniamo a sentirci vulnerabili ai dardi dell’imprevisto.
E, a livello sociale, sta succedendo qualcosa di simile. Il propagarsi del Coronavirus, che avvertiamo come una minaccia alla nostra salute ma anche alla nostra libertà di movimento e di relazione, ci porta a fare i conti con una vulnerabilità generalizzata, e a prendere atto del fatto che vi è una diffusa mancanza di competenze emotive per affrontarla.
E così, chi più chi meno, rischiamo di venire risucchiati dalla centrifuga della psicosi collettiva. Ma il panico non risulta essere una reazione coerente con i dati della situazione: occorre fermarsi a pensare, a partire da una lettura critica e ben informata di quello che sta avvenendo.
Confidando negli esperti, invece di lasciarsi impressionare dagli allarmismi incontrollati. Evitando il giudizio facile, quello che sentenzia senza sapere, ma impegnandosi invece in una disamina seria dei fatti, con il supporto di fonti attendibili, competenti e aggiornate. Sul panico hanno gioco facile i truffatori, come quelli che – è fra le notizie più inquietanti di questi giorni – si spacciano per volontari della Croce Rossa, e con la scusa di effettuare i tamponi entrano in casa con ben altre intenzioni. E sul panico hanno un impatto esplosivo e devastante gli atteggiamenti irresponsabili di chi diffonde notizie non veritiere, come quell’audio WhatsApp che alcuni giorni fa aveva innescato il propagarsi della menzogna di due casi di contagio all’ospedale di Peschiera.
Ma la mancanza di competenza emotiva si esprime anche laddove la ricerca di facili rassicurazioni per sé e per il proprio orticello relazionale anestetizza l’empatia. E questo succede laddove le persone decedute per il virus diventano numeri, da confrontare con quelli degli altri Paesi; oppure diventano casi che, in virtù delle loro condizioni particolari così distanti dalle nostre, non ci toccano. Trattandosi di anziani e con patologie pregresse, le loro morti non ci risuonano nel cuore. E invece dovrebbero farlo, perché quand’anche non avremmo potuto trovarci noi al loro posto, al loro posto avrebbero potuto esserci magari i nostri genitori o i nostri nonni.
Un’altra competenza emotiva importante è quella di saper orientare lo sguardo su quanto, nei momenti di difficoltà, può nutrire un sentire positivo: se ci impegnassimo a farlo, sentiremmo la gratitudine per il lavoro incessante dei medici e degli operatori sanitari degli ospedali e delle ambulanze, l’orgoglio per la bravura dei ricercatori impegnati a studiare il virus e i modi per debellarlo, la fiducia in una una comunità che, pur bloccata per alcuni giorni in molte delle sue espressioni quotidiane, riesce a trovare modi per restare unita.
Occorre allora coltivare un sentire nutrito di pensiero informato e critico, perché mentre il panico rende schiavi, la capacità di pensare preserva la nostra libertà; occorre coltivare un sentire capace di far risuonare dentro di noi le difficoltà e i dolori degli altri, che condividendo la nostra stessa umana vulnerabilità sono più vicini a noi di quanto a volte ci rassicuri pensare; e occorre coltivare un sentire illuminato di positività, perché quando non ci si impegna a cercare spiragli di luce si finisce presto per vedere tutto buio.
E, in questo momento, vedere tutto buio non solo non è sensato, ma è pure controproducente se non addirittura dannoso.