Dai social, dai giornali, dalle telefonate… è tutto un profluvio di “Comprare italiano!” e “Pensiamo a come ripartire!” e noi sottoscriviamo al 100%.
Qualche tempo fa, quando ancora era possibile, ho trascorso un paio di giorni in Val di Fassa e naturalmente ho approfittato del gustoso speck del posto, anche se né in Val di Fassa e né in Val di Fiemme ho visto grandi allevamenti di maiali. Sempre in quei luoghi ho gustato dei buonissimi frutti di bosco provenienti da Pizzo Calabro e il puzzone di Moena me lo sono portato direttamente da Cerea; i funghi secchi però, li hanno prodotti a Treviso ma, in compenso, il radicchio rosso di Treviso viene coltivato anche in Trentino. Se non è mangiare italiano questo!
Si può non condividere la necessità di comprare italiano? No, indipendentemente dal corona virus, anche a parità di rapporto qualità/prezzo, è sempre meglio comprare italiano. Però è chiaro che c’è qualcosa che non funziona e che deve essere corretto anche a partire da noi consumatori, perché non possiamo pretendere di gustare le fragole a febbraio e gli asparagi a dicembre.
Ma se questa è la situazione del Made in Italy alimentare anche l’industria manifatturiera presenta alcune specificità: un prodotto per essere considerato italiano deve subire (almeno) tre fasi di lavorazione in Italia. Dunque… progettazione (ottimo!), controllo qualità (bene!) confezionamento e spedizione (per esagerare). Se ci impegnano un po’ faremo diventare italiani anche tutti i prodotti venduti su Amazon! Sì, sottoscriviamo anche noi! Compriamo italiano a 360 gradi! Tuteleremmo la nostra economia e con essa, i nostri figli (a meno di non doverci indebitare per comperare del formaggio di Alba che, in prossimità del Natale, sulle bancherelle di Ponte Pietra, veniva venduto a 45 (Quarantacinque,00) euro al Kg!
Ma per fare questo non basta una reazione a un idiota francese che posta un video vomitevole e che probabilmente deve ancora digerire la sconfitta di Vercingetorige ad Alesia! Forse il problema, oggi, è un po’ complesso per essere risolto con una semplice reazione dimostrativa…
Prendiamo ad esempio il nostro territorio. A Sona vi sono sicuramente delle aziende agricole che fanno la differenza in fatto di qualità ed anche di promozione dei propri prodotti. E poi vi sono anche realtà che possono produrre per un mercato “locale” (pensiamo ad esempio ad aziende dedicate all’orticoltura) ma, se, per favorire il Made in Italy alimentare, venissero approvate leggi restrittive circa l’import di prodotti alimentari dall’estero, probabilmente lo stesso farebbero anche i nostri Paesi concorrenti, con il risultato che le pesche le lasceremmo marcire sugli alberi, le albicocche farebbero la stessa fine e probabilmente anche il vino subirebbe dei contraccolpi (solo per fare degli esempi).
Anche il settore manifatturiero, a Sona, vanta delle eccellenze, ma è impossibile che le aziende ubicate sul nostro territorio producano solo per Sona, Verona, il Veneto o l’Italia; senza contare che senza le materie prime, l’energia e i semi lavorati che vengono dall’estero, che cosa potrebbero fare queste realtà?
Poco, crediamo, ma la nostra è un’opinione, diteci voi se è sbagliata, saremmo i primi a sottoscrivere soluzioni che promuovano il vero Made in Italy (all’occorrenza, un giorno potrei raccontarvi la storia di un brevetto che era stato depositato proprio per proteggere il Made in Italy ma che è stato impossibile da sostenere).
Ormai l’economia è globalizzata e, localmente, poco possiamo fare per il settore manifatturiero; questo, infatti, è un comparto dove deve necessariamente intervenire lo Stato per promuovere e tutelare industrie che, in caso di difficoltà, potrebbero diventare una vera e propria scialuppa di salvataggio (le mascherine e i presidi medici in generale, forse, e diciamo forse, dovremmo essere in grado di produrceli da soli, senza che si arrivi ad episodi di vero e proprio autoritarismo, come è avvenuto recentemente per mascherine prodotte in Sardegna e bloccate nell’isola perché i sardi sono più italiani dei liguri!).
Il commercio? Beh, forse in questo ambito qualcosa si potrebbe fare, limitatamente al Comune di Sona, anche se con effetti da verificare. Per esempio, si potrebbe creare un “Buono” da spendere negli esercizi commerciali del Comune e si potrebbe (per favorire il commercio che ancora resiste ai grandi marchi) limitarne l’utilizzo nei grandi centri commerciali e nei negozi in franchising.
Gli Enti Locali potrebbero erogare i contributi alle Associazioni No Profit (o anche ai privati in difficoltà) con questo tipo di “Buoni”, per far in modo che il denaro erogato rimanga nel proprio territorio, anche gli straordinari o una parte di essi potrebbero essere pagati con queste forme di “Buoni spesa”.
È una proposta fattibile? È un’idea sostenibile? Potrebbe aiutare il commercio locale? Non lo sappiamo, ma se non ci proviamo non lo sapremo mai.
Compriamo italiano, certo! E magari, quando è possibile, compriamo a chilometri zero, consapevoli però che questo non è sufficiente per risolvere i nostri problemi economici e che in questa economia che è ormai globalizzata, insistere troppo sul comprare italiano, potrebbe essere come dare un placebo ad un malato terminale; nella globalizzazione ci siamo immersi tutti fino al collo e, anche desiderandolo fortemente, non sarà facile uscirne.
E tiriamo fuori le idee, un’idea sbagliata non è una cattiva idea, è solo un’idea che può essere migliorata e questo dobbiamo lasciarlo fare a chi ne ha le competenze.