Durante le primissime fasi del lockdown, quando i numeri si facevano spaventosi e le bare dei morti venivano trasportate con i camion militari, tutti noi abbiamo rivolto un pensiero colmo di gratitudine a chi affrontava l’emergenza negli ospedali: medici, infermieri, tecnici. Un moto di commozione ha attraversato il paese vedendo la foto dell’infermiera esausta sulla tastiera del computer e i volti segnati dalle mascherine.
La parola più usata in quel momento, in Italia e nel resto del mondo, è stata la parola “eroi”. Eroi sono stati proclamati non solo gli operatori sanitari e i medici di base ma anche le cassiere al supermercato, i camionisti, i militari e i poliziotti, i volontari che distribuivano cibo o mascherine.
La parola “eroi” è bella, evocativa e, in quella situazione, doverosa: ci ha fatto sentire una comunità coesa e riconoscente. I nostri gesti hanno manifestato il nostro affetto e la nostra vicinanza a chi si stava sacrificando per noi.
Eppure l’uso di quel termine, ad una più approfondita analisi, può risultare inadeguato e fuorviante, perfino insufficiente nei confronti di chi ha svolto la propria professione con impegno e dedizione. L’archetipo dell’eroe è Achille sotto le mura di Troia, Leonida con i suoi spartiati alle Termopili, Giordano Bruno che sfida gli inquisitori, Carlo Pisacane con i suoi trecento che “erano giovani e forti”, Garibaldi il generale generoso e intepido, Falcone e Borsellino consapevoli del rischio mortale a cui vanno incontro. Eroi furono anche i santi che non si piegarono e scelsero il martirio con il sorriso sulle labbra come santa Perpetua o san Lorenzo.
Ciò che caratterizza l’eroe è innanzitutto la sua straordinarietà. L’eroe non è il comune mortale, sta fra la terra e il cielo degli dei. E poi il coraggio di fronte a situazioni estreme: ciò che per altri è destino a cui sottomettersi, per lui è scelta volontaria. Nulla gli è impossibile, la volontà e il coraggio oltrepassano il limite.
Nell’azione eroica la morte è sfidata, accettata o scelta: ha un valore addirittura superiore alla vita perché solo la morte testimonia la fedeltà all’ideale e permette di raggiungere l’assoluto. Ciò per cui egli si sacrifica è sempre un valore astratto: la patria, la libertà, l’umanità, l’onore, la gloria. [E però come dimenticare Achille nell’Ade, interrogato da Ulisse: “Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Vorrei da bracciante servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba, piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti. Ma dammi qualche notizia del mio nobile figlio” (Odissea, XI, vv. 487-492).
Coraggio, fedeltà all’ideale, solitudine, sacrificio, morte, onore e gloria: tutto questo è l’eroe.
La retorica dell’eroe rischia però di trasformare medici ed infermieri in esseri eccezionali, con il pericolo di deresponsabilizzare noi tutti: “L’eroismo scatta dove manca il senso del dovere quotidiano o dove le situazioni sono precipitate tanto da richiedere il sacrificio personale. C’è bisogno degli eroi per riscattare gli errori di qualcuno o le mancanze collettive. C’è un inganno sottile dietro l’eroismo: l’idea che la morte, o il rischio, siano ripagati con la gloria”, leggiamo su una lettera a La Repubblica del 19 aprile scorso.
Nelle moltissime interviste pubblicate sui giornali o trasmesse dalle televisioni, gli infermieri così hanno parlato di sé: “Non siamo eroi, né santi o angeli. Siamo lavoratori, professionisti”, “Siamo umani e abbiamo paura di ammalarci”, “Posso affermare con orgoglio che stiamo dando tutti il massimo, senza mai tirarci indietro”, “Io sono pronta e mi impegnerò per cercare di dare tutto il mio contributo”, “Ciò che più mi addolora in questa situazione, è vedere i pazienti soli, senza familiari vicino”, “Siamo stati le mani, lo sguardo e le parole dei famigliari durante gli ultimi istanti di vita dei pazienti”.
Questi non sono eroi, sono forse qualcosa di più. Tzvetan Todorov, nel bel libro Di fronte all’estremo, distingue le virtù eroiche dalle virtù quotidiane. Sono entrambe atti di libera volontà di fronte alle situazioni drammatiche ma con ben diverso significato. Coloro che hanno combattuto sul fronte della lotta contro il coronavirus (anche questo riferimento retorico alla guerra è significativo!) non appartengono alla schiera degli eroi ma ad una categoria ben più valorosa ed importante: quella delle persone dotate di virtù quotidiane.
Le virtù quotidiane sono innanzitutto virtù “personali” ovvero compiute da persone normali, non straordinarie, e rivolte a individui particolari, ben determinati, “volti” come direbbe Lévinas. Non si agisce per un ideale astratto ma per delle persone che hanno un nome, una storia, delle relazioni. Persone che rappresentano un mondo intero. “Chi salva un uomo, salva il mondo intero” recita il Talmud.
Una virtù quotidiana è poi la dignità, soprattutto la dignità del proprio lavoro, fatto con coscienza e professionalità. L’orgoglio per il proprio lavoro è una forma quotidiana di servizio. Non siamo eroi, siamo professionisti, appunto. Un’altra virtù quotidiana è l’altruismo: l’eroe spesso agisce per la gloria e l’azione eroica si presta ad essere raccontata. L’altruismo invece agisce con riferimento a persone che ci stanno di fronte, nel quotidiano e si esprime in semplici gesti: uno sguardo o un gesto di affetto che manifesta condivisione, l’ascolto paziente ed empatico. Solo che l’atteggiamento responsabile non-eroico, si presta male alla narrazione!
Bisogna poi distinguere il bene dalla bontà: chi cerca il bene rispetta la dottrina e la impone, a volte con una intransigenza che può fa il male delle persone. È l’ideologia che, nella sua purezza, può sacrificare gli individui in carne ed ossa. Tutti i fanatici hanno agito per un mondo futuro perfetto (l’Utopia) ma chi impone il bene spesso fa il male.
A questa moralità dei principi si contrappone la moralità della simpatia. È la bontà senza ideologia, la bontà di un singolo verso un altro singolo, senza discorsi, senza giustificazioni, spontanea. Questa bontà è quanto c’è di umano nell’uomo.
Se l’eroe è affascinato dalla morte perché gli permette di raggiungere l’assoluto, la persona dotata di virtù quotidiane ama invece la vita. La vita richiede il coraggio di ogni giorno, di ogni istante; può essere anch’essa un sacrificio, ma senza niente di esaltante: in questo senso, vivere diventa più difficile che morire. Il coraggio di vivere è più raro e più prezioso del coraggio di morire.
E poi il valore della vita ha a che fare con la complessità, che non vuol dire necessariamente il compromesso ma piuttosto la considerazione della molteplicità nell’esistenza concreta.
Non facciamoci illusioni: dopo questa emergenza torneremo uguali a prima, prenderanno il sopravvento, ancora una volta, l’individualismo e il cinismo, ricompariranno le cattiverie sui social, le sterili polemiche politiche. E dimenticheremo in fretta.
Ma in questa situazione è stato aperto uno squarcio e abbiamo potuto constatare che esistono persone capaci di virtù quotidiane e che in ciascuno di noi dimora e resiste un senso incancellabile di dignità, di altruismo e di bontà. Forse siamo migliori di come ci rappresentiamo.