Coronavirus a Sona. “La Fase 2 ci costringe a ripensare tutto: come individui, come società e come chiesa”

Se c’è uno slogan che ha accompagnato questa quarantena e che ancora rimane sullo sfondo è sicuramente: andrà tutto bene. E chi non se lo augura? La questione è duplice: cosa è questo “tutto”? E in che modo la considereremo andata bene? Certamente dobbiamo essere ottimisti e come sono state vinte altre battaglie, magari anche più pesanti, riusciremo a superare e vincere anche questa.

Leggiamo e sentiamo molto sull’argomento. Fior fiore di esperti si esprimono in previsioni sulla durata di questa pandemia e sugli effetti con cui saremo costretti a fare i conti. Quasi tutti comunque, manifestiamo il desiderio (o la semplice speranza) che tutto torni ad essere come prima nel più breve tempo possibile. Questa è la questione di fondo: veramente desideriamo che tutto torni come prima?

Se così fosse la crisi che stiamo attraversando non sarebbe vera crisi, tenuto conto che questo termine di origine greca (krísis) significa letteralmente scelta, decisione. Ci sono scelte da fare, decisioni da prendere. La situazione attuale, pur con tutto il suo peso negativo, ci sta dicendo che è arrivato il momento, non più procrastinabile, di attuare dei cambiamenti, visto che viviamo quello che è stato definito un cambiamento d’epoca.

Qualcuno ha azzardato l’affermazione che il nuovo secolo inizia adesso perché questi primi vent’anni del nuovo millennio sono stati ancora espressione del percorso fatto nella seconda metà del secolo scorso. L’esperienza della pandemia ha fatto saltare tutti gli schemi. Ci sono due esigenze molto forti: far ripartire l’economia e la vita sociale. Entrambi questi aspetti hanno conosciuto un inverno inedito: tutto è nato da una “sospensione” che, come ci siamo già detti, non riporterà ad una ripresa da “dove ci eravamo lasciati”, perché ci ritroveremo diversi, dovendo capire in quale senso si manifesta questa diversità.

Se ogni crisi, per essere superata, impone un cambiamento, certamente una necessità è quella di ripristinare il primato della politica. Nell’ansia, legittima, di voler trovare subito la strada della salvezza ci si affida alla scienza, ma non possono essere gli scienziati a guidare il mondo. Il loro lavoro e le loro scoperte, così come i loro suggerimenti, sono fondamentali in ogni settore della nostra vita ma è “l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica” (definizione di politica tratta dall’enciclopedia Treccani), che deve prevalere.

Una politica che dovrà agire insieme all’Europa e dentro l’Europa (che si è rivelata la grande assente o inesistente) in modo da prendere con maggiore determinazione e velocità la strada dell’unione sempre più stretta, all’insegna di una solidarietà più profonda e concreta.

Per deformazione professionale mi viene da dire che anche la politica deve avere la sua “pasqua” il suo “passaggio”. Deve recuperare il senso originario di gestire la cosa pubblica, non di ricercare il consenso ad ogni costo magari prestandosi a compromessi e lotte sotterranee. La politica non si fa con i like, sulla pelle della gente. Si fa per la gente, se ne ha la capacità. Altrimenti si può stare a casa. Tra i pochissimi meriti del coronavirus, c’è quello di averci mostrato dove abbiamo sbagliato e dunque da dove ricominciare.

Volendo rimanere in ambito di deformazione professionale c’è un’immagine evangelica che mi sovviene e che si sposa con la necessità che anche la Chiesa viva il suo momento di passaggio epocale, la sua pasqua. Mi riferisco al brano contenuto nel Vangelo secondo Giovanni (21, 1-19). Invito ad andare a rileggerlo riportando qui solo alcuni versetti “Disse loro [apostoli] Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla”. Siamo dopo la risurrezione e Pietro esprime una certa reticenza a cominciare una vita diversa al punto che torna a fare il mestiere di prima, il pescatore. E gli altri lo seguono. Il risultato è il fallimento, non pescano nulla.

Se torniamo a fare, come Chiesa, le stesse cose nello stesso identico modo, come se questa crisi non dicesse nulla, il risultato sarebbe fallimentare. Non possiamo più fare una pastorale di autoconservazione, ma riconoscere con umiltà e senza paura che siamo di fronte ad una identità esausta e fragilissima.
Se vogliamo ancora avere una vera rilevanza sociale e non essere semplicemente un’istituzione piena di servizi, dobbiamo ripartire dalle convinzioni di fondo che stanno alla base della nostra identità. Sarà faticoso cominciare, sarà altrettanto faticoso e nebuloso individuare le modalità ma è un’occasione da non lasciarci sfuggire.

La tentazione di tornare a fare ciò che facevamo sarà grande ma dobbiamo fidarci, come Chiesa e come credenti, che il Signore ci mette nelle condizioni di leggere i segni dei tempi e anche la lungimiranza per agire in tal senso. Ma bisogna osare.

Come credenti o meno, se vogliamo tornare tutti ad abbracciarci, dobbiamo sentire che questo abbraccio non è solo recupero di ciò che ci è mancato ma la consapevolezza che abbiamo superato un isolamento che ha lasciato il posto ad una solidarietà globale.

Don Pietro Pasqualotto è coparroco di Lugagnano dal 2017. Sulla rivista cartacea del Baco tiene una rubrica di approfondimento e riflessione dal titolo "La rete di (don) Pietro"