In queste ultime settimane, molti di quelli che hanno letto con attenzione I promessi sposi ricorderanno le pagine che Alessandro Manzoni dedica alla diffusione della peste nel territorio lombardo e nella città di Milano nel Seicento. Riporta fatti storici e descrive tante scene con magistrale realismo, basandosi sullo studio e sulla comparazione di svariate fonti ed ispirandosi anche al Decameron, la più famosa opera di Giovanni Boccaccio, il quale narra la diffusione della peste in quel di Firenze, nel Trecento, e la fuga di dieci ragazzi sulle colline di Fiesole allo scopo di evitare il contagio. Quei ragazzi scelgono di scacciare i brutti pensieri raccontandosi a vicenda cento novelle, che diventeranno un vero e proprio inno alla vita, all’umanità.
Manzoni conosce bene le pagine che Boccaccio dedica alla reazione della popolazione di fronte al dilagare del virus e di esse si serve per descrivere la massa lombarda in preda al terrore e alla rabbia, che finisce per credere alle teorie più strane sulla diffusione della pestilenza, in particolare a quella relativa ai cosiddetti “untori”. Nei Promessi sposi, proprio tra quei capitoli colmi di sospetto, di diffidenza che si tramuta in odio, tra bubboni, porte sprangate, carri dei monatti pieni di cadaveri, pianti, miseria ed ignoranza, appare improvvisa una luce di speranza: è una madre, sulla soglia di casa, con in braccio la figlia, Cecilia, una dei tanti piccoli innocenti morti di peste.
La madre, dall’aspetto ancora giovane ma stanco e affaticato, esprimeva un dolore che aveva “un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. […] Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva. […] Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affacendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina.”
La madre di Cecilia è uno dei personaggi dei Promessi Sposi che non si possono dimenticare, che commuovono nel profondo per l’immensa forza, per la dignità e la compostezza nel dolore che il suo aspetto e il suo comportamento lasciano trasparire. Manzoni, nei capitoli che dedica alla carestia e alla peste, ci mette più volte davanti al fatto che la paura annebbia il cervello, che il sospetto e l’ignoranza portano alla distruzione del concetto di solidarietà. La massa impazzita, che si muove col pensiero fisso della preda su cui scaricare tutta la colpa della propria sofferenza e della paura è facilmente vittima di manipolazioni, diventando meschina e violenta, dimenticandosi di avere un cuore. Di fronte alla psicosi collettiva, l’autore sembra dire al lettore che bisogna restare lucidi e, soprattutto, restare umani. E’ difficile, ma non impossibile.
In questi giorni, in cui i media diffondono continui aggiornamenti sullo stato del contagio, sul numero dei morti, dei tamponi fatti e delle quarantene, è facile farsi prendere dalla paura e non riuscire più a pensare in modo razionale, anche perché sono molte le fake news circolanti, volte ad alimentare l’ansia ed i pregiudizi. Tuttavia, tra le tante parole che si leggono sui social, un pensiero del poeta Franco Arminio appare come uno spiraglio di luce e di buon senso.
Si tratta di un vero e proprio decalogo per non soccombere di fronte alla paura, ma far fronte all’emergenza con buon senso e razionalità. Tra i vari punti del suo elenco, ecco i più significativi.
- Le passioni, quelle intime e quelle civili, aumentano le difese immunitarie. Essere entusiasti per qualcuno o per qualcosa ci difende da molte malattie.
- Capire che noi siamo immersi nell’universo e non potremmo vivere senza le piante mentre le piante resterebbero al mondo anche senza di noi. Stare un poco di tempo lontani dai luoghi affollati può essere un’occasione per ritrovare un rapporto con la natura, a partire da quella che è in noi. […]
- Lavarsi le mani molto spesso, informarsi ma senza esagerare. Sapere che abbiamo anche una brama di paura e subito si trova qualcuno che ce la vende. La nostra vocazione al consumo ora ci rende consumatori di paura. C’è il rischio che il panico diventi una forma di intrattenimento.
- Stare zitti ogni tanto, guardare più che parlare. Sapere che la cura prima che dalla medicina viene dalla forma che diamo alla nostra vita. Per sfuggire alla dittatura dell’epoca e ai suoi mali bisogna essere attenti, rapidi e leggeri, esatti e plurali.