Lo scorso inverno le classi terze delle elementari di Lugagnano sono andate in visita didattica al Museo Africano di Verona. Nel corso di un lavoro interattivo, compiuto con alcuni operatori del Museo sul tema delle diverse popolazioni che abitano il nostro pianeta, è stato chiesto ai giovanissimi studenti se conoscessero qualche bambino straniero. E la sorprendente risposta di quei bambini e di quelle bambine – nelle cui classi sono presenti, tra gli altri, albanesi, marocchini, brasiliani, rumeni, serbi, tunisini, argentini, ungheresi – è stata “no, non conosciamo bambini stranieri”.
Una risposta di un candore disarmante e di un significato preciso: per i nostri bambini “straniero” è semplicemente qualcuno che non conosciamo, non qualcuno che ha una nazionalità, o magari un colore, diverso dal nostro. Non esiste pregiudizio, nel significato che purtroppo percepiamo noi adulti, esistono solo compagni di classe: simpatici o antipatici, più o meno amici, con cui si scherza o con cui si litiga, ma tutto indipendentemente da quei prerequisiti antropologici (colore della pelle, provenienza, religione ecc) che sono invece ancora così presenti nelle generazioni precedenti. Una risposta, quella dei nostri piccoli concittadini, che ha più valore di mille studi sociologici per mostrarci come stia cambiando – in meglio – la nostra società partendo proprio da loro, dai piccolissimi.
Purtroppo anche il nostro Comune e anche in momenti recentissimi, ne abbiano parlato su queste pagine, ha la sua triste lista di vicende di intolleranza, di accoglienza sospettosa verso chi “viene da fuori”, di chiusura, di convivenze complesse. Ci sono testimonianze di famiglie di stranieri che hanno sofferto e soffrono molto la difficoltà di integrarsi nel nostro tessuto sociale, ci sono piccole ma drammatiche storie di ragazzini di pelle o di passaporto diversi che restano sempre e comunque al margine della nostra comunità, ci sono sporadiche esperienze di rifiuto motivate solo ed esclusivamente dal fatto di “non essere nati qui”.
Ma, appunto, l’impressione forte è che siano ormai solo situazioni sporadiche, malate ma sporadiche. In un contesto complessivo che invece appare sempre più in grado, e volonteroso, di integrare chi realmente vuole essere integrato. Tanti, tantissimi sono gli esempi che meriterebbero di essere messi in luce: dal mondo della scuola che propone dirigenti ed insegnanti attenti a saper creare terreno fertile per l’integrazione reale di chi, straniero o italiano, capita a Sona magari nel mezzo del percorso scolastico; dal mondo delle parrocchie, che sanno dar vita a realtà concrete di inserimento attraverso una molteplicità organica di iniziative tese a coinvolgere tutti, dai più piccoli ai più grandi, puntando soprattutto sulla realtà cardine delle famiglie; ai gruppi sportivi che ormai sanno vivere le diversità presenti in ogni squadra e per ogni età come una ricchezza su cui investire e non come una difficoltà da affrontare.
Passando per l’associazionismo locale: dovrà forse passare almeno una generazione prima che adulti stranieri inizino a far parte attiva dei vari gruppi, anche per una ritrosia comprensibile a proporsi in prima persona, ma nel frattempo le nostre associazioni sanno mettere in atto numerose iniziative che hanno l’effetto di coinvolgere anche chi nel nostro Comune non è nato e magari ci è arrivato da pochissimo.
Certo, serve un passo ulteriore, che è culturale più che operativo: la capacità di superare la mistica del “come eravamo” per concentrarsi completamente sul “come siamo”. Passaggio che non significa – attenzione – dimenticare le nostre origini, che fanno parte di noi e che costituiscono un patrimonio su cui costruire, ma che consiste nella capacità di guardare alle comunità di Lugagnano, Palazzolo, San Giorgio e Sona per quello che sono realmente oggi. Impariamo dai nostri bambini e tentiamo tutti assieme di far sì che nessuno si senta estraneo o diverso nelle nostre case, nelle nostre vie e nelle nostre piazze. “Non conosciamo stranieri”, proviamo a pensarlo anche noi.