“Buongiorno Dottore, sono la mamma di Francesca (nome di fantasia), la ragazza investita e da lei soccorsa. Mi sono fatta dare il suo numero qualche tempo fa perché volevo chiamarla per ringraziarla di aver salvato mia figlia. Più volte ho cercato, ma tutte le volte l’emozione e il pianto me lo hanno impedito. Ho deciso ora quindi di scriverle, perché volevo che sapesse che la mia non è stata solo indifferenza. Ogni giorno, quando guardo mia figlia, vedo il suo corpo sull’asfalto praticamente senza vita ma con un angelo al suo fianco, quell’angelo è proprio lei dottore, senza il suo intervento io non avrei mai più potuto rivedere il suo sorriso e per questo non smetterò mai di ringraziarla. Salvando mia figlia ha salvato la mia vita!”.
E’ una testimonianza arrivata in questi giorni ad uno dei medici che presta servizio presso il SOS SONA. Parole che sono come una sferzata di freddo vento invernale sulla pelle, sortiscono un dolore quasi fisico. Questa ragazza ce l’ha fatta. Altri, come purtroppo narrano le vicende di cronaca di questi giorni, no.
Altri genitori non hanno avuto la possibilità di ringraziare un medico e dei soccorritori per aver salvato la vita del loro figlio. Ed è una constatazione che fa un male tremendo. Perché siamo genitori, siamo fratelli e sorelle, siamo zii e nonni. Perché conosciamo il valore della vita del prossimo dove questo prossimo è parte della nostra sfera affettiva più intima. Questo prossimo è qualcuno a cui abbiamo dato la vita.
Al SOS conoscono queste situazioni, le toccano spesso con mano e le vivono sulla pelle. “Salvate le vite” si sentono spesso dire i soccorritori, come se questo fosse un dogma, una certezza. Dove arriva un soccorritore sicuramente si salva una vita. Magari fosse sempre così. Purtroppo le situazioni a lieto fine si contano su una mano. Troppe le variabili che entrano in gioco in un soccorso: gravità della situazione, fattore tempo, ma anche casualità , imprevedibilità, destino imperscrutabile. Il non riuscire a dare un esito positivo ad un soccorso a cui si da tutto se stessi è un peso che si porta dietro per giorni e che a distanza di tempo, negli anni, ogni tanto riaffiora come un ricordo inciso nella mente e nel cuore. A maggior ragione quando si tratta di persone giovani.
Nel raccontare una vicenda come quella di Anna e della figlia, forse bisogna ripartire da questa considerazione: un soccorso a cui si da tutto se stessi. L’impegno, la preparazione, la professionalità del medico e della squadra di soccorritori del SOS ha permesso di sovvertire il possibile esito fatale di un evento drammatico e dare una svolta alla vita. Non parliamo di loro come di eroi, troppo spesso si usa in tutti gli ambiti e a sproposito a la parola eroi. Sono persone che si sono fatte trovare pronte nel momento in cui la vita ha chiesto loro un passo avanti.
Spostiamo il tiro dal risalto che può avere un soccorso come quello fatto a Francesca. Quante volte, tutti i giorni, la vita ci chiama a fare un passo avanti nei confronti di qualcuno? Raramente si tratta di qualcuno che sta rischiando la sua di vita, il quotidiano ci chiama spesso a riconoscere, a capire e a farci permeare da situazioni molto meno complicate, a compiere gesti che non hanno niente a che fare con l’eroismo perché sono molto semplici e alla portata di tutti. Sono gesti che, se compiuti, danno carburante all’incredibile generatore di bene comune che si chiama solidarietà.
La testimonianza di Anna è un formidabile stimolo all’impegno a non mollare, al non chiedersi mai “ma chi me lo fa fare?”. Perché la risposta, ammesso che esista, sta nella gioia e nella gratificazione che ti regala un gesto di altruismo verso qualcuno.