E poi appare quella foto ingiallita, un ritaglio di un quotidiano di tanti anni fa, che Piero una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi tira fuori da sotto il bancone del suo bar, dove ogni giorno vai a prendere un caffè prima dell’ufficio.
Quella foto Piero te la porge quasi con pudore antico, perché certi sentimenti non sono mai facili da mostrare, soprattutto per noi uomini.
La prendi in mano e non riesci più a staccartene perché capisci subito che racconta da sola la tragedia di una generazione, quella dei nostri nonni, spesso mai usciti dal loro paese e dalla loro contrada ma che nella Seconda Guerra Mondiale furono mandati a morire su fronti dai nomi esotici e sconosciuti che sono poi diventati il rosario dolente della nostra storia, da Scutari in Albania a Sidi-el-Barrani in Egitto, dal monte Smólikas in Grecia al colle della Seigne in Francia.
Ma soprattutto la Russia, è in Russia che un’intera generazione ha rischiato di perdersi per sempre: 84 mila furono i morti, 30 mila feriti e 70 mila uccisi poi da freddo e stenti. Una generazione che, invece, seppe ritrovare proprio in quella tragedia immane, in quella incredibile avanzata a ritroso iniziata sul Don e che ha visto suo culmine nella battaglia di Nikolaevka del 26 gennaio 1943, la voglia e la forza di ricostruire l’Italia dopo la tragedia del fascismo.
In quella foto ingiallita ci sono due amici, Adriano Merlo da Verona, il papà di Piero, e Sergio Bergamini da Cavaion Veronese, stretti in un abbraccio che toglie il fiato.
Adriano e Sergio hanno combattuto insieme nella Tridentina in Russia e per tutta la campagna sono rimasti vicini, gomito a gomito lungo quei mesi di guerra disumana. E alla vigilia di ogni avanzata, all’alba di ogni giorno che poteva significare vivere o scomparire nell’inferno di ghiaccio, rinnovavano la loro promessa: se uno dei due non fosse tornato, l’altro avrebbe avuto il diritto di mangiare la sua pagnotta.
Perché in quell’incubo di freddo e di fuoco e negli immensi spazi innevati quasi mai la catena dei rifornimenti del Corpo di spedizione italiano in Russia funzionava, e una pagnotta poteva rappresentare realmente la differenza tra la sopravvivenza e la morte di fame.
Un giorno, dopo un ennesimo feroce scontro, Sergio non è però tornato. Ma Adriano quella promessa non è proprio riuscito ad onorarla. Pur nella fame nera di quei giorni senza speranza la gola gli si è chiusa e di mangiare quella pagnotta benedetta dell’amico non se l’è proprio sentita.
Tanti anni dopo, in occasione di un’adunata degli Alpini in Arena, come per vero miracolo Adriano e Sergio si sono ritrovati. Merlo non poteva saperlo, ma anche il Bergamini, ferito in quell’assalto, era poi rientrato in patria, sia pure con una gamba di meno.
E lì è nato quell’abbraccio, colto da un fotografo quasi per caso, che ci racconta nella sua essenza profonda cosa siano l’amicizia, l’onore, la forza di rimanere umani nella tragedia.
Ora che Andriano e Sergio non ci sono più, di loro due e della loro storia rimane però, oltre al ricordo forte di chi a loro ha voluto bene, quella foto potente e straziante. Tragedia del Novecento e monito a cosa non dovrebbe più essere ed invece si ripete ogni giorno.